venerdì 24 febbraio 2012

Tra i segni-scrittura del laboratorio artistico di Nicolò D’Alessandro





di Antonino Contiliano




Per aprirmi un varco tra le mie maceri era necessario
volare. E infatti ho volato. In quel mondo in rovina vivo
ancora solo nel ricordo, siccome si pensa al passato,
ho la mia memoria tanto tra i morti che tra i non nati; più
vicino alla creazione, ma non ancora abbastanza vicino.

Paul Klee

Il piacere del disegno, il segno-testo del piacere. La scrittura come disegno e il disegno come scrittura. Il segno ipogramma e ipersegno. L’ ipercodificazione artistico-poetica dell’alfabeto e dei semi del linguaggio, della sintassi e della logica dell’arte grafica e pittorica. Il segno come icona e non immagine-copia. Tutt’al più tra immaginal (immagine della mente), imaginary (immagine della fantasia) e iconizzazione. Il contenuto incarnato e rappresentato dallo/nello stesso segno e mediato dalla sua grammatica artistica. Un rapporto “motivato” e condizionato, autoriflessivo (non a caso il nostro, per il suo segno, aspira alla qualità della poesia). La verità del segno, il simbolo del senso: la coscienza della sua “autenticità” tra precarietà e universalità. Una semantizzazione semiotica del disegno-scrittura che, quale significanza di plusvalenza infra-inter-semiosi, gode anche della correlazione fonocromatica (precise scelte coloristiche e miscelature mirate), come dell’utilizzo della com-presenza dello stesso pittore-autore (come un altro Barone di Münchhausen). Una com-presentificazione che fa parte della rinnovata avventura peri-patetica grafico-pittorica del pittore palermitano, e offerta al passante, l’arrischiante che si avvia tra le sale del centro “Santo Vassallo” di Mazara del Vallo e i rigori dell’inverno 2012.



Queste le coordinate (alcune) che Nicolò D’Alessandro (fin dal prima opera posizionata all’ingresso della sala) – altro segno-dettaglio che traccia e intreccia fittamente il suo disegno contro l’horror vacui – presuppone e dichiara apertamente al suo visitatore intorno alle scelte operative e di elaborazione della sua po(i)esis estetico-artistica. Sono le sue opzioni, almeno così crediamo, estetico-artistiche e la “visione” ideo-logica che le supportano per la popolazione figurale-visuale con cui l’artista D’Alessandro gioca la rappresentazione simbolica dello spazio, del tempo e della funzione del segno come di-segno grafo-pitto-scritturale continuo e discontinuo, frattale. E ciò al fine dell’“estraniamento dalla realtà, di...isolamento dalla percezione del quotidiano..., di sondare tutti i percorsi del pensiero” (Nicolò D’Alessandro).
Se così è, allora il ricorso (analogico) alla procedura e ai processi del mondo simbolico del “frattale” è un altro modo, secondo chi scrive, per avvicinare (“dis-allontanare”) la verità del segno e il senso del segno-iconizzante nel/del “disegno-scrittura” dell’opera del grafico-pittore palermitano. Il disegno frattale di Nicolò infatti è come il geometrico “fiocco di neve” di von Koch. Il costrutto poietico del ritmo geometrico-matematico (realizzato con il procedimento della segmentazione e sulla base del principio di “autosomiglianza”) quale continuum della linea modellante la “figuralità” del vuoto (non visibile) dello spazio temporalizzato. Il tracciato cioè che – tramato dall’artista D’Alessandro – come una forza gravitazionale e la sua massa evolutiva dis-torcente, regolare-irregolare (dis-continua, continuum-fratto) del tempo e le sue “catastrofiche” pluribiforcazioni (uno sgomitolarsi-aggomitolarsi e viceversa, come un paradosso ossimorico permanente), e simulate sulle superficie piane dei supporti, si fa carico della narrazione delle emergenze figurative (spesso riproducesti la posizione facciale di ‘profilo’, sembra voler suggerire l’allestimento, della “pittura vascolare” antica) che l’autore pesca dal suo mondo possibile. Sono l’emergere delle creature del fantastico strano e meraviglioso entro le geometrie razionali del processo grafico-enunciato elaborato con il tratto ora denso ora sfumante del “segno” pittorico di D’Alessandro. Un’altra spia utile (diremo più avanti e per cenno) che, per alcuni aspetti (il tempo fluido e fluttuante dei “frammenti” e delle “rovine” che emergono dal significante, il vuoto da colmare svuotandolo), rimanda la memoria al tratteggio snello quanto semanticamente pregno di Paul Klee.

È febbraio 2012 e Mazara del Vallo nella sua Galleria d’arte “Santo Vassallo” ospita la mostra d’arte del grafico palermitano Nicolò D’Alessandro.
La mostra – successiva all’incendio (qualche anno addietro) che gli ha distrutto la casa (sembrava anche un museo dei ricordi, e pochi angoli di vuoto; e lì che ho avuto anche il piacere e la fortuna di andare a trovare l’artista) – espone la produzione dell’artista (grafico-pittore) all’insegna de “Il Segno Il Tempo Lo Spazio”, e mette a disposizione del pubblico e dei visitatori anche un catalogo. La pubblicazione del catalogo, dedicatogli dal Comune di Mazara del Vallo, riporta sia la riproduzione (emblematica) di parte dei suoi lavori. Produzione precedente e nuova.
Presenti nel volume, fra gli altri scritti, sono alcuni interventi critici e interpretativi che riguardano la produzione del nostro Nicolò D’Alessandro. Fra gli altri testi, illuminanti sono quelli delle dichiarazioni che lo stesso artistica lascia circa il senso del suo impegno di ricerca e sperimentazione simbolica e del medium (segno) privilegiato. Il segno-icona che im-piega per la poiesis della sua “enunciazione” grafico-pittorica. Non secondari sono gli intenti conoscitivi e presuppositivi (congeniali) e i nomi degli artisti referenti cui rimanda. Esplicito è il richiamo, direttamente evocato, che il pittore fa al nome dell’artista Gastone Novelli come partner “consanguineo”, o preferenziale riferimento inter-testuale per assonanza o correspondence estetico-po(i)etica: “Aspiro alla visione poetica dei disegni di Gastone Novelli – Novelli da parte sua ha avuto una certa con-sonanza con diversi e noti poeti (E. Sanguineti, E. Villa, E. Pagliarani, etc.) dell’ultimo Novecento italiano – che attraverso segni (lettere, vocaboli, immagini) racconta un labirintico itinerario grafico che pare senza fine” (Nicolò D’Alessandro).
Segno, tempo, spazio, disegno e piacere del disegno, scrittura, icona, visione e memoria, racconto, estraniamento e richiami d’altra geografia pittorico-iconica (gli “emakimoni” che rimandano ai rotoli giapponesi), mito, labirinto, sogno, moltitudine, precarietà, universalità, serialità, dettaglio, manierismo, autenticità, percezione del mondo e coscienza, tradizione ed esperienza personale, tensione immaginativa, il rapporto interno/esterno, etc. sono l’armamentario del vocabolario dell’officina-laboratorio dell’artista D’Alessandro. Non è sufficiente un’officina con i suoi mezzi. Bisogna anche che l’autore-costruttore la utilizzi come laboratorio per l’elaborazione della produzione (l’autore come produttore, W. Benjamin) che ci dica della idea del mondo scelto (suo), del suo rapporto di attesa-intesa con il pubblico e della modellizzazione dell’immaginario con le particolari scelte segnico-formali che fenomenizzano (in generale) i tópos archetipici e antropologici che alimentano l’immaginario del nostro grafico e pittore (sintomatiche sono per esempio, in tal senso, i lavori de “La valle dell’apocalisse” e le chine similari del periodo precedente).




E chiunque avvicini il suo (di D’Alessandro) lavoro come spettatore e lettore, prima ancora che usufruire delle “letture” (reali, implicite, ideali) altrui, deve far i conti con questo “campo di forze” che pre-cede la realizzazione “visuale” astratta-concreta, come già opportunamente ha notato il lettore-pittore Giacomo Cuttone nel suo pezzo saggistico: “Di-segno in segno-Le scritture visuali di Nicolò D’Alessandro” (http://mazaracult.blogspot.com/ e http://www.mazaraonline.it). Perché la mostra del grafico e disegnatore Nicolò D’Alessandro – Il segno Il tempo Lo spazio – si propone di restituire lo stretto e complesso rapporto tra immagine, scrittura e il segno-iconizzazione che, caratterizzante la poetica dell’artista, tramite il “di-segno” (come scrive G. Cuttone che in esergo cita Alberto Giacometti e la sua scelta per la “linea” e il “disegno”) si incarica di “Non rendere il visibile, ma rendere visibile” (Paul Klee) il vuoto che la “foresta” fitta e densa del segno simbolizzante insegue ininterrottamente come un orizzonte che si allontana mentre ci si avvicina alla “creazione”. Da qui, forse, la lunghezza e l’estensione sempre più dilatate impiegate dal D’Alessandro nel sogno in bilico di cum-prendere definitivamente la ricchezza inesauribile del vuoto, e di cui J. Lacan si è occupato sfruttando l’analitica dei pittori (La prima estetica – Se-minario VII , L'etica della psicoanalisi – di Lacan è infatti un'estetica del vuoto. È l’arte come organizzazione del vuoto. “La tesi lacaniana dell’opera d’arte come bordatura del vuoto [...] sospinge a preservare invece una distanza essenziale tra l’opera d’ arte e il vuoto che essa organizza e circoscrive”. Cfr. Massimo Recalcati, Le tre estetiche di Lacan, in Aut Aut, 326, aprile-giugno 2005, pp. 142-158).
Sì, perché, come diremo (per cenni) fra poco, Klee (non solo Gastone Novelli e Alberto Giacometti) può essere l’altra “intertestualità” e contestualità culturale storico-culturale cui, crediamo, si richiama (più o meno esplicitamente) il grafico palermitano. E non solo perché anche per Klee il vuoto non doveva essere soffocato da nessuna pretesa di perfezione e pienezza pittorica. Fra le note di “poetica” che Klee ci ha lasciato infatti si legge: “Nei tempi antichissimi, quando scrittura e disegno coincidevano, la linea era l’elemento primo”. E della “linea”, il nostro non ne fa proprio a meno: varia è l’enunciazione della sua forma.
Inoltre D’Alessandro, come Klee (nota in esergo), per le note vicende (l’incendio del 2008), deve rimparare a “volare” la “creazione” artistica tra le “macerie” e le “rovine” della sua (non solo del tempo collettivo della postmodernità del disincanto) personale apocalisse materiale e spirituale; e la sua invenzione/costruzione artistica deve pur dirsi/ci dell’indicibilità-dicibilità del “tempo” che ha tagliato la sua vita e la sua opera come solo la desertificazione sa fare quando si abbatte nella fitta vegetazione del segno-simbolico dell’artista. Una vegetazione folta e densa che scava nell’ “enigma”, e “straniante”, del “non visibile” tramite il fantastico meraviglioso o strano (Giorgia Lo Piccolo, Rita Verderame). Un groviglio labirintico che – ancora Giacomo Cuttone – “si aggroviglia” per “poi, finalmente, sgomitolarsi manifestando tutta la sua attualità anche nei suoi aspetti più drammatici”, di rinascita. Il colore – oro, rame, blu, giallo, verde, etc. – che fa capolino di nuovo tra il giallo macchiato dal verde, come in un riprendersi oscillante (la fluenza intermittente del timbro coloristico) dal disagio vitale dell’abbattimento salutare provocato dal male catastrofico (reale e immaginario), sono anche l’iconizzazione semantizzante la tensione meta-fisica del nostro. Una tensione che è transtorica ma non astorica, narrativa (racconta), e vibrata attraverso la frequentazione del segno ritmato con le peri-pezie della geometria variabile. Vero è infatti che la dimensione temporale (espressa nella serialità- la successione del segno) si realizza nella configurazione bidimensionale dello spazio (tela o rotolo) che la riceve come successione e simultaneità del segno lavorato ad emblema. L’esempio particolare che cerca l’universale (anche a costo di usare la parola “mito”). Il concreto-astratto cui il segno-icona dà corpo e materia come una forza gravitazionale che contrae o dilata la superficie in ogni suo “isotopico” spazio atomico-cellula-re innervato, e risonante di immediatezza e sveltezza. Forse l’immagine della stessa leggerezza e sveltezza per dire la caducità della contingenza del tempo in schemi che ne dinamizzano corporeità e incorporeità. La forma dinamica che, pur nello spessore e nella pienezza della con-figurazione e dell’astrazione (iconizzanti come nello stilizzato nelle sue silhouette di Klee).
Ma c’è di mezzo la carica ossessiva per l’amore del “dettaglio” e della pienezza che lo incalza, l’istanza del “mito” e la fuga-estraniamento (di Nicolò D’Alessandro) dalla “precarietà” della realtà, cose che suonano contro. E surdeterminati dai valori psico-antropologici e simbolici che cromatizzano l’immaginario dell’“estraniamento dalla realtà” (Nicolò D’Alessandro) e dal tempo, lasciano irrisolto il dubbio circa la presenza del tradizionale “simbolismo” sempre in agguato.
Ma il sintagma (“estraniamento dalla realtà”) del nostro pittore non esclude del tutto che l’estraniamento sia un allegorizzante sotto copertura, e per cui è ragionevole ipotizzare l’implicita parentela con il concetto di “straniamento” proprio all’arte moderna. La strategia che è in rotta con il simbolismo classico. L’arte moderna e i suoi procedimenti infatti recuperano la “precarietà” e la contingenza del tempo, e, rispetto alla fuga nella “redenzione del simbolo” per redimere la caducità temporalizzatrice, ne fanno il luogo privilegiato della produzione artistica in generale e delle contraddizioni materiali e culturali che la animano conflittualmente. Così il conflitto (alcune volte monocromatico) suggeritoci dalle scelte che mescolano e alternano le tinte timbricamente forti e netti (oro, rame, blu, azzurro) del caldo-freddo, vicinanza-lontananza e la relazione metamorfica della genesi e del ritorno alle origini.
Dopo tutto, grazie al cielo, ci sono artisti che vivono felicemente le contraddizioni culturali-ideo-logiche e le mettono in tela o rotolo con tutte le deformazioni (anamorfosi sintattico-semantica) cui il “segno” materiale ir-reale presta il fianco volentieri per narrarsi in sim-biosi con il mondo “altro”, il possibile. Il mondo del reale po(i)etico che ha scelto (così ci piace leggerlo) il nostro grafico e pittore-autore Nicolò D’Alessandro!
Salut!, Nicolò...

Il sarcasmo antireligioso del Marchese de Sade




L’editrice Stampa Alternativa, nella nuova collana “Fiabesca BenedettiMaledetti, curata dallo scrittore e critico Stefano Lanuzza, pubblica il suo primo volume (Français, encore un effort si vous voulez être républicains, Roma 2012, pp. 149, € 13,00). Di questo primo libro, dedicato al pensiero politico di Donatien Alphonse François de Sade – la penna della più “sfrenata immaginazione erotica” (p. 21); lo scrittore accusato (solo a causa dei suoi libri) di “empietà, oscenità e perversione” (p. 25) e proposto dallo zio abate per l’internamento in manicomio” (p. 20) perché segnalato come pazzo –, l’autore è anche lo stesso Lanuzza.
I prossimi volumi della collana fiabesca MaledettiMaledetti, diretta dal critico Stefano Lanuzza, sono quelli che riguardano Lou Salomè, Verlaine, Rimbaud, Nietzsche, Campana.
L’opera Français, encore un effort si vous voulez être républicains, curata dal nostro curatore – scrittore e critico già provato per il suo interesse verso le figure eretiche e le scritture demistificanti (ricordiamo Louis-Ferdinand Céline, l’altro grande maledetto del Novecento ripescato e pubblicato sempre con Stampa Alternativa) –, immette il lettore nella trama del “Quinto dialogo” del pensiero filosofico-politico del Marchese de Sade (il testo si trova raccolto nella Philosophie dans le boudoir) e lo obbliga a “misurarsi” con le sue argomentazioni prospettiche.
I ragionamenti (pensati dialogicamente, ci pare) di Sade – che si “proclama repubblicano e sembra professare un sorta di comunismo estremo” (p. 23) – si aggirano infatti sul rinnovamento etico e civile francese sulla base di poche leggi (semplici ed essenziali) e una regolamentazione pratico-giuridica corrispondente. In ciò si nota la tensione del Marchese e il desiderio di contemperare la prassi socio-politico-giuridica della nuova società borghese (nata dalla rivoluzione francese e da lui agognata) con i vizi, le virtù della filosofia senso-naturalistica e la felicità materiale immanente che egli riconosce come propellente intellettuale-immaginativo proprio.
De Sade, dalla prigione-manicomio, infatti scriveva alla moglie: “ Sì, sono un libertino, lo riconosco: ho concepito tutto quanto può concepirsi in tale ambito, ma certamente non ho fatto tutto quello che ho immaginato e di certo non lo farò mai. Sono un libertino, ma non sono un criminale né un assassino” (p. 5).
Calunnia, furto, libertinaggio, prostituzione e pratica mercenaria sono gli altri luoghi di invito alla riflessione sui “costumi” che, insieme alla vita e alle altre opere (indicate) del libertino, il lettore, spulciando i titoli e l’indice analitico del libro, troverà “Nel Boudoir del Gran Maledetto”.
Per le pratiche dell’ingaggio (si direbbe oggi) di truppe mercenarie, dell’adulazione cortigiana e pretaiola di laici e religiosi e degli abusi di potere (sembra essere in una società berlusconiana ante litteram), nel libro, il lettore si trova a leggere pure la “Lettera – scritta da Sade – di un cittadino di Parigi al re dei Francesi” .
È la lettera in cui si accusa il re di aver rotto il “Patto federativo” (p. 124) con il popolo, il solo sovrano. Nel testo della lettera, accusato di tradimento, è anche invitato a ravvedersi e a lottare contro i pregiudizi e gli abusi senza indugi. Una presa di posizione netta e decisa in nome di quella libertà ed eguaglianza conquistata dal popolo e degna di tutti i cittadini. I protagonisti e gli attori diretti che hanno fatto la grandezza della Nazione francese, e dato esempio perché gli altri popoli, oppressi dal dispotismo e dalla tirannide, ne seguissero la via e il fine.
“Quale differenza, Sire! Che la vostra sensibilità la percepisca. Preferite perciò questo modo di regnare a quello dovuto soltanto al caso; preferite i preziosi sentimenti di questa nazione, che apprezzandovi dovrà amarvi, ai consigli meschini e politici dei cortigiani corrotti che vi circondano e dei preti fanatici che vi seducono”(p. 130).
La religione e i preti. Un altro versante che Donatien de Sade demistifica e svuota di valore con l’ironia del sarcasmo. La sua regola preferita rispetto alla morte o alla pena di altre violenze gratuite quanto inefficaci.
Di fronte all’“incoerenza” e alla necessità di modifica dei comportamenti, tuttavia, continua il “grande maledetto”, “io non propongo massacri né deportazioni: tutti questi orrori sono lontani dalla mia anima perché io possa osare di concepirli per un minuto. [...] queste atrocità vanno bene per i re e per gli scellerati che li imitano”(p. 54).
Come si vede, la praxis che de Sade mette in moto è la freddezza dell’ironia dura, tagliente ed efficace quanto può essere quella che invece assume le vesti del sarcasmo e del ridicolo per le incisive e profonde lacerazioni che provoca nel tessuto ideo-comportamentale dei “costumi” reificati delle masse e dei suoi mediatori e/o apparati confessionali ideologici.
Così Donatien Alphonse François de Sade ci si presenta con la ghigliottina della risata disarmante e combattiva. La risata salutare che ogni “repubblicano”, storicamente laico, non dovrebbe mai abbandonare come arma critica e autocritica di fronte alle acrobazie dell’immaginazione e del potere noetico. Anzi dovrebbe privilegiarla e metterla in pratica esecuzione, permanentemente. Donatien, infatti, scrive: condanniamo “ad essere deriso, ridicolizzato, coperto di fango in tutte le piazze [...] il primo di questi benedetti ciarlatani che verrà ancora a parlare di Dio e della religione” (p. 55). Non massacri né deportazione dunque, pensa/immagina e scrive de Sade, ma la satira feroce e demistificatrice: “Usiamo la forza solo contro gli idoli. Non occorre che il ridicolo per chi li serve: i sarcasmi di Giuliano nocquero alla religione cristiana più di tutti i supplizi di Nerone” (p. 54).
Provocatorio e stimolante per la riflessione adrenalinica altresì è il suo discorso sul diritto che deve regolare la “proprietà” di ciascuno alla sessualità felice e al godimento disinibito e libertino nella società della “gaia scienza” razionale; la società per cui il popolo della rivoluzione ha dedicato mente e corpi onde ciascuno non fosse più condannato per le sue libere e convinte scelte di vita individuale e collettiva. Quelle scelte immaginativo-intellettuali che prima di tutto mettono in subbuglio le strutture archetipiche dell’immaginario antropologico coltivato ad hoc.
Il “BenedettoMaledetto” Marchese, infatti, così scrive: “qui si tratta solo del godimento e non della proprietà. Non ho nessun diritto alla proprietà di una fontana che incontro sul mio cammino, ma ho dei sicuri diritti al suo godimento: ho diritto di profittare dell’acqua limpida offerta alla mia sete” (pp. 80-81).
Secondo il “divino”, infatti, la costruzione sociale (quale “necessaria” connessione con la filosofia naturalistica delle pulsioni) nelle sue declinazioni politico-artificiali e innovativo-de-formanti, nonché contrastanti con l’immaginario etico-religioso e politico ossificato del vecchio e nuovo ordine, non può e non deve più giocare a nascondino, o dietro il paravento dei pregiudizi e delle violenze del potere che ossifica la propria egemonia di classe-di-diritto o di legittimo potere come comando e abuso nato da un asimmetrico rapporto di forze tra dominati e dominanti.
Del resto non bisogna dimenticare che per un Pascal il “diritto” è stato il primo atto di violenza che di fatto si è imposto come “ragione” che ha sopraffatto la ragione contraria, e che la scomoda assunzione della “crudeltà” libertina del divino Marchese non è esorcizzabile con i moralismi del comodino ideologico e moralizzatore egemone.