lunedì 26 novembre 2012

Arte (Cuttone)-Poesia (Contiliano)- “Noi Rebeldìa 2010”: Firenze (29.11.’12)-Roma (1.12.’12)

Noi Rebeldìa 2010, We are winning wing, l’ultimo libro di poesia collettiva sine nomine, – (a cura di A. Contiliano, ed. CFR, Piateda [SO] 2012, pp.78, € 10,00; copertina di Giacomo Cuttone (china: “Alle radici”) –, sarà presentato il 29 nov. 2012, ore 17, alle “Giubbe Rosse” (spazio diretto da Massimo Mori) di Firenze e l’1 dic. 2012, ore 18, al “Lavatoio Contumaciale” (Laboratorio diretto da Tomaso Binga). A Roma la presentazione del libro sarà accompagnata da una personale del pittore Giacomo Cuttone. Il Cuttone, insieme alla copertina del libro, ha infatti realizzato anche una serie di chine che, “ispirate” ai frammenti dei poeti sine nomine del libro, ibridano elemento grafico-pittorico e poesia. Una sperimentazione – che negli anni di frequentazione con i testi poetici di Antonino Contiliano – il pittore non ha mai smesso di realizzare con successo. La personale del pittore Cuttone (residente a Mazara del Vallo è originario di Petrosino), che avrà luogo all’interno del “Lavatoio Contumaciale” di Binga – sarà presentata dallo scrittore, poeta e critico Mario Lunetta. A Roma,Noi Rebeldìa 2010 ,We are winning wing sarà invece presentato dai critici Francesca Fiorletta,Francesca Medaglia eFrancesco Muzzioli (Univ. La Sapienza). A Firenze ne avranno cura il poeta ed editore Gianmario Lucini e Giuseppe Panella (Normale di Pisa). Con We arew inning wing e I volti di Lou (poesie) di Maria Teresa Ciammaruconi, il poeta ed editore Lucini inaugura anche la sua nuova collana “ibrida” (collana di poesia e altre arti, Edizione CFR). Del libro Noi Rebeldìa 2010, We are winning wing, curato dal marsalese Nino Contiliano –che ha visto la partecipazione all’esperimento sine nomine di diversi poeti (Franca Alaimo, Giuseppe Aricò, Gherib Asma, Nadia Cavalera, Massimiliano Chiamenti, Antonella Ciabatti, M. Teresa Ciammaruconi, Giovanni Commare, Ivana Conte, Antonino Contiliano, Beppe Costa, Valerio Cuccaroni, Davide Dalmiglio, Antonio Fiore, Stefano Lanuzza, Mario Lunetta, B. Maria Menna, Francesco Muzzioli, Giovanni Nuscis, L. Omar Onida, Natalia Paci, Marco Palladini, Giuseppe Panella, Emilio Piccolo, Luca Rosi, Francesco sasso, Gianluca Spitaleri e Lucio Zinna) – , già si è interessata la critica letterario-poetica (attenta ai fenomeni di rete). Riportiamo qualche frammento dell’analitico e approfondito saggio che Domenico Donatone (critico) gli ha già dedicato sulle pagine di www.retididedalus.it (rivista del sindacato scrittori italiani, nov. 2012):
“Oltre alla scomparsa dei politici, dei partiti, dobbiamo incominciare a riflettere anche sulla scomparsa dei poeti? Pare questo il tema che più sorprende e cattura, sollevato da un movimento letterario dal nome “Noi Rebeldìa 2010 – We are winning wing” (a cura di A. Contiliano), mentre intorno a noi visibili sono le macerie di un mondo che pensavamo di conoscere. [...] Personalmente penso a We are winning wing come ad un testo poetico destrutturante [...], un deposito di esperienze che dà tutte le possibilità, nonostante le differenze, di potersi incontrare su un comune denominatore/spazio di strategia, per superare il presente impresentabile, post-umanista e post-moderno. [...] Il collettivo poetico “Noi Rebeldìa 2010” è strategicamente pronto per essere un “soggetto-poetico” che respira a pieni polmoni nella trama del “fare rete”, così da arginare (sarebbe meglio dire sfuggire?) la morsa della speculazione editorial-capitalistica e pluto-finanziaria. [...] Se il poeta scompare nella rete vorrà dire che tutto il concentrato delle sue idee si sta immedesimando in qualcosa di nuovo, di ibrido (come viene ben detto in più passi nella prefazione al libro), perché ormai non si può essere una sola cosa e basta. La letteratura segue la tecnica, fa rete. [...] L’aspetto davvero fondativo del movimento poetico “Noi Rebeldìa 2010” è la sua valenza meta-politica, meta-letteraria, ampiamente condivisibile, da programma partitico e politico puro, che ribadisce, specie in questa fase storica, che bisognerebbe unirsi anziché litigarsi le briciole. [...] Il testo We are winning wing, per concludere, ha una sua dignità letteraria, esprime una vitalità che sulla pagina torna ad essere come un figlio illegittimo che vuole conoscere il padre d’origine. [...] Sulla pagina è invitante questo post-dadaismo e post-surrealismo che ricorda Tristan Tzara e André Breton, il meccanismo del montaggio e della fusione testuale, a cui i poeti di “Noi Rebeldìa 2010” (quindi “Noi Ribellione 2010”) hanno dato spazio con intelligenza non autoreferenziale. Dentro questo testo c’è anzitutto il respingimento di ogni espressione lirica, di ogni tema legato all’io, in quanto, scrive la Medaglia, «la poesia contemporanea è troppo spesso preda di un noioso e monotono io autoreferenziale, che rifugge il confronto e la relazione e si sente responsabile solo di se stesso: ciò può essere cambiato, ma solo dalla proposta di una cultura cooperativa e plurale che ponga al centro della sua attenzione il senso comune e la necessità sociale»”. Altro intervento è leggibile su http://retroguardia2.wordpress.com/2012/11/24/noi-rebeldia-2010-we-are-winning-wing-presentazioni-a-firenze-e-roma.

sabato 17 novembre 2012

Per ricordare il poeta mazarese Rolando Certa

(Rolando Certa con Cesare Zavattini) Il 16 novembre 2012 non è un giorno qualsiasi per Mazara del Vallo, la Città dove ha passato l’intera vita il poeta Rolando Certa. E non è una giornata qualunque per due motivi. Uno dei quali non è certo bello per i mazaresi. Se non fosse stato infatti per un gruppo di coraggiosi ragazzi degli Istituti Superiori (per la verità erano assenti quelli del liceo classico e scientifico: forse hanno snobbato...?), saremmo stati tutti più soli di quanto non siano i cavalieri dei mulini al vento poetici nell’era delle autostrade elettroniche e del capitalismo del mercato linguistico o della compra-vendita delle immagini “brand”. L’altro motivo – di coraggio resistenziale (degno di attenzione) e di lotta contro le ingiurie del tempo tritatutto – è il pensiero che va al lascito dei morti (specie se poeti: nel caso R. Certa) per non lasciare che i vincitori li seppelliscano due volte. Al tavolo dei lavori G. Incandela, P. Di Giorgi, Sig.ra Chirco (dirigente dell’Associazione del volontariato)
Dopo una breve ed elegante introduzione della scrittrice Incandela, la relazione del prof. Di Giorgi. Il prof. Di Giorgi, amico ed estimatore di Rolando Certa, traccia la figura e il pensiero del poeta mazarese (deceduto in Ungheria durante un suo viaggio culturale) in maniera propria e ricca di rimandi. Rimandi che hanno visto Rolando, il poeta viaggiatore e organizzatore degli “Incontri fra i popoli del Mediterraneo” a Mazara del Vallo (anni Settanta e Ottanta del secolo scorso), impegnato in azioni poetico-culturali e politico-civili “profetiche”di ampio respiro, e perciò di una attualità di tutto rispetto. Ma i suoi concittadini non sembrano essersene accorti, tranne che una sparuta minoranza (ma per questo meritevole) di appassionati per la lingua dei testi poetici e dell’opera complessiva di Rolando Certa.
A tutti i ragazzi presenti un grazie per aver testimoniato con il loro “ascolto” e partecipazione di non voler fare vincere il silenzio sul nome dell’amico e poeta mazarese Rolando Certa, morto fuori confine cittadino. A tutti i ragazzi (finalisti e premiati) un invito a non demordere dal frequentare la poesia e un “bon!” per essersi misurati (certo hanno ancora tanto tempo avanti per vagliare e rivedere l’intreccio dei propri scritti: non si nasce già potenza poetica o di altro segno...) con il linguaggio della poesia. Un salut, per loro, particolare perché abbiano più cura della scrittura poetica “propria” e d’altrui mano, sforzandosi (anche in conto proprio, se la scuola ufficiale non provvede...) di munirsi dell’attrezzatura necessaria. Il poeta palestinese, Mahmoud Darwish, disse (sintetizziamo): “chi scrive poesie” nel tempo dell’atomica (oggi si può aggiungere”: delle “armi intelligenti” e delle guerre umanitarie e della fame...) è “un rivoluzionario”. Una documentazione della manifestazione, per collage di frammenti, si trova on-line sul canale di “lucreziocaro90”( http://www.youtube.com/watch?v=QYycCYXpbvY&feature=youtu.be; http://www.youtube.com/watch?v=2xqZLOKKf3U&list=UU_sVseI-_8hVQo-74XPDDHw&index=1&feature=plcp).

“SOS” del sistema idrico marsalese

“SOS” del sistema idrico marsalese un promemoria dal sottosuolo Arriva la squadra idrotecnica in Via A. Elia n. 5! È la squadra incaricata dal Comune di Marsala per le riparazioni alla conduttura idrica del sottosuolo che rifornisce dell’oro bianco (acqua) i cittadini non morosi. È il tredici novembre 2012. Le quattordici unità abitative (Palazzo delle Rose) della Città hanno ristabilito così, finalmente, il loro punto di approvigionamento d’acqua autonomo per il fabbisogno familiare(documentazione/youtube/Lureziocaro90: http://www.youtube.com/watch?v=QelvX-kYCf4&feature=youtu.be).
Certo, la cosa, dopo le sollecitazioni dei giorni passati, è andata a buon fine. È con soddisfazione comune (lavoratori, appaltatori, personale dell’Ufficio comunale addetto, cittadini aventi diritto). I lavoratori diretti – che hanno venduto la loro forza viva per una giornata lavorativa (ma non loro stessi, diversamente da come ancora pensano e dicono molti datori di lavoro e o appaltatori: gli operai sono miei; i miei operai, etc...) – non si sono risparmiati. La riparazione tanto differita così è finalmente portata a termine con esito positivo. Riteniamo però provvisorio tale esito così come abbiamo avuto modo di sperimentare e come lo è, forse, per tanti altri nodi della Città e del territorio. La rete idrica (in gran parte è antica), usurata e mal posizionata con tutti i danni e i rischi che la cattiva dislocazione comporta. Dalla constatazione di come sono distribuite e concomitanti le varie reti dei servizi sotterranei risulta chiaro che mancano (dall’origine) di una razionale pianificazione. Tutta la rete avrebbe bisogno di essere ripristinata in toto e secondo un chiaro e “pubblico” intervento. Un piano che lasci i tracciati rinnovati in un vera e propria mappa topografica della/e stessa/e rete/i sotterranea/e. Ciò eviterebbe alle squadre addette ai lavori interventi casuali (come avviene per ora), improvvisati per la ricerca del punto di rottura e alquanto dispendiosi per la Comunità. Il sottosuolo ci racconta che la rete non gode di buona salute e sistemazione. La deposizione del nuovo tubo di allaccio convive, sebbene a breve distacco, dalla tubazione della FOGNA e da quella del GAS. Non è maldicenza la nostra! Abbiamo segnalato già la cosa, nel nostro precedente articolo (documentazione/youtube/Lureziocaro90: http://www.youtube.com/watch?v=QelvX-kYCf4&feature=youtu.be), alla responsabile attenzione dell’Amministrazione pubblica e dei suoi dirigenti (non è necessario fare nomi e cognomi). Il problema è ereditato e lasciato agli interventi di fortuna! E gli interventi di manutenzione/riparazione avvengono per di più “alla cieca” o per sondaggi casuali (i lavoratori delle squadre di soccorso non dispongono di una topografia della rete che corre nel sottosuolo). Ma oggi (come ieri) insistiamo e riproponiamo: non è ora che l’Amministrazione cittadina metta mano al pensiero e al rinnovo del sistema IDRICO INTEGRATO marsalese (per il vero DISINTEGRATO!), anziché pensare alle privatizzazioni, aumentare la tassazione e investire in iniziative di parata e consumo (gravanti su tutti, e specie sui più deboli) che non migliorano affatto la qualità della vita delle persone? Una programmazione pluriennale per quartiere o zone (seguita da partecipazione diretta di tutti i cittadini: il suolo, il sottosuolo come l’acqua ... sono beni “pubblici” e “bene comune”) – che rimettesse ordine e qualità nel sottosuolo cittadino e marsalese – potrebbe essere l’avvio di un modo più efficace e democratico di amministrare la cosa pubblica e nuova difesa “pubblica” del “bene comune”. Ci vuole coraggio e denaro? Ma dove vengono le finanze quando si spende per altre cose che non hanno la stessa importanza vitale?

I deserti “sacri” della postmodernità

Tempo di crisi, tempo di scelte fra i deserti “sacri” della postmodernità Pour être juste, c’est-à-dire pour aver sa raison d’ être, la critique doit être partiale, passionnée, politique, c’est-à-dire faite à un point de vue exclusive, mais au point de vue qui ouvre le plus d’horizont. Charles Baudelaire Il 12° “Seminario itinerante” dell’Immaginario Simbolico, ideato e curato dal marsalese e studioso jungano, dott. Alfredo Anania, organizza e offre un incontro culturale che incrocia questioni di rilievo quali “il femminile”, “l’immaginario”, “Anima” e “Animus” nell’ “epoca post-moderna”. L’incontro dal 2/4 novembre 2012 avrà luogo nei locali del Convento del Carmine (Marsala). L’arco degli invitati sul campo è molto variegato – medici, psicologi, scrittori, artisti, ecc. – come è possibile immaginare, considerata la portata composita che l’area di discussione, confronto e dialogo impone. Qui si può solo dare un scorcio selettivo e piuttosto schematico dell’ipotesi lavorativa. Lo spessore dei significati e delle interpretazioni (non certamente pacificanti il senso comune), che gireranno nel crocevia delle linee chiamate in causa, è molto intricato e intrigante. È il crocevia delle forme e del ruolo materiali e non – struttura, sistema, funzione, temporalizzazione, mezzi e strumenti della forza produttiva – dell’ordine simbolico e delle sue “personificazioni” concettuali e immaginative. Ed è qui che verte lo scontro, non solo terminologico, tra moderno e il “post” del post-moderno. La partita in giuoco è la colonizzazione esclusiva del mentale quale forza di produzione e riproduzione dell’ordine egemone. In questo ordine giocano l’ideologia e le tendenze, e il “post” si qualifica come “modernismo” (Romano Luperini, Controtempo), una variazione del moderno. Una variazione che convive anche con l’antimoderno. Dal moderno non si esce. A questo punto non guasterebbe richiamare l’attenzione anche sulle lotte e gli studi gender (di genere), sui “cultural studies” di Edward Said, sulle ricerche “archeologiche”, cambio “epistemico”, ordini del discorso, biopotere e biopolitica di Michel Foucault. Ma chiudiamo subito l’inciso. Nell’ordine dell’epoca invece o del tempo della rivoluzione elettronica e informatica, il “post” si qualifica come “periodizzazione storiografica” e si dice “postmodernità”. Come dire, intanto, che c’è un presupposto non esplicitato di cui si deve tener conto, quanto una presa di consapevolezza critica intorno all’ambiguità del “sema” post-moderno, allorquando il simbolismo in scena diventa uno spartiacque storico/temporale o astorico/intemporale. Un discrimine che rimescola, violentemente o pacificamente, i fili del tessuto che lacerano o congiungono il naturale e l’artificiale del destino dell’animale umano e del suo humus sociale. Un conflitto tra contrari o opposti sull’intersecazione del simbolo e della realtà che può essere affrontato con spirito di conciliazione o violenta lacerazione e che accomuna qualsiasi geografia umana, e della cui configurazione si occupa tanto la psicoanalisi del profondo quanto il mito. Ne va della posizione e della situazione del suo essere conflittuale singolare e collettivo o politico pur attraverso la via della dimensione culturale e psicologica; ne va della corrispondenza, proporzione, o meno del razionale e dell’irrazionale, dell’ordine e del disordine, del cosmos e del caos, del conscio (mente) e inconscio (psiche), del rapporto tra pensiero e materia, artificio e natura, interiorità ed esteriorità, femminile e maschile. Fondato e infondato, l’“immaginario” storico primigenio umano così può essere rappresentato come una lotta tra il maschile e il femminile, il mentale e l’istintuale e il chiasma che li relaziona con fin dentro il godimento erotico (De Sade, Bataille...) del piacere della vita nell’esercizio stesso della morte e della violenza “sacra”, indifferente. Una immagine astratta/concreta o simbolo/icona “meta-forico/a” dove viene trasferita l’inquietudine dei poli in tensione e non aliena da effetti tanto costruttivi che distruttivi sia per il singolo individuo quanto per un soggetto collettivo (Jung parla di un “immaginario collettivo” universale). Ma il discorso, la comprensione e l’intesa sull’universo simbolico non sono né pacifici né univoci. Simbolico è tanto il formalismo dei segni astratti (vuoti) e non contraddittori (o meno) di cui parla, per esempio, la logica scientifica in genere, quanto i simboli contraddittori ed eterogenei della “chôra semiotica” (pulsioni) che urgono il sogno o l’universo onirico (diurno e notturno) delle persone. Ma tra il simbolico del formalismo e quello della psicoanalisi dell’“immaginario simbolico” del 2/4 novembre 2012 non corre buon sangue. Anzi: uno è privo di sangue e l’altro ne è abbastanza carico come un intenso fluido dinamico fluente e fluttuante. Quello della psicoanalisi è una energetica che con-tatta conscio e inconscio, l’anima (il femminile) e l’animus (il maschile) e fa dell’immaginario (anche moderno) un luogo animato da rappresentazioni iconiche che l’immaginazione (produttiva e riproduttiva) impasta con il pensiero intellettivo e noematico. Icone peculiari di “resti arcaici” (archetipi: “immagini primordiali” e collettive ereditate, Jung) quanto costrutti verosimili e aggrovigliati che parlano ai singoli e alla collettività con il linguaggio dei simboli. I simboli che, intermediari (il“tra”), animano la vita e la storia fra il giorno e la notte, il sole (maschio) e la luna (femmina), i corpi e le ombre, la mente e il suo inconscio, la verità e la follia, il continuo e il discontinuo, l’unione e le fratture, i fenomeni/apparenze e i modelli, ecc. Un po’ come avviene – processo schizoide – nella materia subatomica o in quella grande del cosmo in espansione e divenire. Einstein ebbe a dire che se la teoria quantistica ha ragione, il mondo è folle: la teoria ha ragione, il mondo è folle (causalità, acausalità e casualità coesistono; rimuoverne una componente del gioco dei dadi non eliminerebbe il caso e la rêverie). Il simbolico del post-moderno invece è un deserto di ghiaccio: segni assolutamente astratti, sottratti persino allo scarto dell’allegoresi (il dire altrimenti – allegoria – dell’interpretare senza chiavi predeterminate) moderna. Il suo immaginario è senza immagini (lo scandalo del mondo delle immagini o del brand); è un magazzino di segni puri e crudi. Segni autoreferenziali e istantanei che, oltre la dialettica del rapporto cose-copie-cose, girano a vuoto. In questo deserto ci sono solo copie di copie. La realtà visibile e invisibile è scomparsa. Nessuna differenza coglie il rapporto tra la “cosa” e la sua rappresentazione. Identità assoluta spettrale, il post-moderno è l’epoca senza un immaginario concreto, almeno nel senso che la tradizione (anche moderna) ci ha lasciato; ovvero uno “spazio-tempo” dell’immaginazione e della temporalità storica dei linguaggi e del “novum” incessante (la novità: il tempo, la finitudine, la moda, la morte, la contingenza, la pluralità, la molteplicità, la singolarità...). Il suo immaginario è un fabbrica di immagini-“brand” (marchi commerciali) senza corpo né carne (simulacri IMMORTALI di un “simbolico” dissanguato come il mondo del film MATRIX) dell’industria post-fordista dell’immateriale e della sua ideologia emozionale. L’emozione immediata e istintuale come nel mondo del film BASIC ISTINT o del virtuale attuale e dei suoi formalismi algoritmico-digitali. Gli algoritmi che, nei grafici del “neuroimagining” e del debito pubblico sovrano, nulla sanno del dolore e dell’amore, del polemos privato e pubblico, dell’arcaico e del civile annodati e della passione che l’investe. Nella fabbrica dell’immaginario post-moderno l’immediata adesione emotiva all’ordine del presente e dei suoi segni deserti non ha niente a che vedere con l’emotivo “numinoso” di Jung. Non c’è più l’“in sé” de “il maschile”, “il femminile”, l’“Anima” e l’“Animus” ma una combinatoria atemporale di lettere e cifre. Il tempo è detemporalizzato: il presente è eterno; il passato è una morta citazione; nessuna ipotesi anticipatoria o utopica chiama il futuro (sebbene inarrestabilmente in arrivo; fortunatamente!). Le chiavi del potere della fabbrica dell’immateriale e dell’invisibile è però nelle mani dei mandarini del “post”, i quali dispongono ( proprietà) del capitale-software, controllano i modi (modus, moderno) di produzione necessari all’egemonia di classe (noti sono gli impoverimenti vecchi e nuovi, le chirurgie estetiche, le guerre umanitarie, i “debiti sovrani”...) e ideologizzano adesione magico-emozionale al sistema e ai suo “sacri” algoritmi algebrici. Paradossalmente l’immaginario postmoderno, come suggerisce la stessa psicologia “storica” del profondo (astorico-atemporale), per il suo simbolismo formalizzato ripropone una ‘religio’ di comprensione intuitivo-magico-emotiva essendo il pre-forma dell’ordine simbolico/linguistico pratico. Jung scrive: “Per «storia» non intendo il fatto che la mente si venga sviluppando da sola attraverso riferimenti coscienti al passato tramite il linguaggio e altre tradizioni culturali. Io mi riferisco bensì allo sviluppo biologico, preistorico e inconscio della mente dell’uomo arcaico, la cui psiche era altrettanto chiusa di quella animale” (L’uomo e i suoi simboli, p. 51). In ogni caso però non si esce dal linguaggio come dal mondo e dal tempo. Ci precedono; e tuttavia non impediscono né il rimosso né il suo ritorno. Il sacro e il magico ritorna? Certo è che anche lo spettro di Marx è in giro! Altrettanto confortante è il fatto pure che il problema della soggettivazione o della desoggetivazione dei singoli e del collettivo, dei rispettivi immaginal e della loro incorporazione storica stia a cuore tanto al marxismo quanto alla psicoanalisi dinamica. Se è scelta è fra il mondo che si svolge nel tempo e il tempo nel mondo. E il tempo, come scrive Ilya Prigogine, nasce: nasce da un fondo senza fondo (nero/vuoto), come l’infinito dello zero. E se il pensiero ha come realtà immediata la lingua, “ il problema di discendere dal mondo del pensiero nel mondo reale si converte nel problema di discendere dalla lingua nella vita” (K. Marx), così come, parafrasando un pensiero di W. Benjamin, non si tratta di porre le opere “nel contesto del loro tempo, ma di presentare, nel tempo in cui sorsero, il tempo che le conosce, cioè il nostro” (Avanguardia e rivoluzione). ....il testo non soddisfa...?... un invito ad essere presenti al seminario e a partecipare!

mercoledì 18 luglio 2012

“Osservatorio Etideniologico”? alle “2rocche” di Capo Boeo?

Signoli onolevoli della nuova Amministrazione marsalese: “Tibi vero gratias agam quo clamore? Amore more ore re” (Athanasius Kircher)? Non certamente con le parole del poeta Kircher, sebbene grazie per l’opera di deviazione dello scarico fognario nei pressi del Museo “Anselmi”. Apprezziamo l’invenzione linguistica – “Osservatorio Etideniologico” (ma è disciplina nuova?, o “Etideniologico” sta per Epidemiologico?) –, cosa rara nella società della comunicazione della stereotipia spettacolare (!), ma che c’entra coinvolgere nel divieto (foto allegata) la balneazione nelle acque delle “2rocche” di Capo Boeo? (1- Decreto regionale Sicilia 6-5-2012 Dipartimento Regionale per le attività sanitarie e osservatorio Etideniologico. 2- Ordinanza Sindacale n. 278 del 16-7-2012 in allegato foto divieto).
Qualche domanda s'il vous plaît? Ci si perdoni le manchevolezze! Avete preso la decisione per valorizzare il posto e allontanare i frequentatori (interni ed esteri) del posto? Avete fatto un concreto e oggettivo riscontro (analisi delle acque) dell’insalubrità delle acque delle “2rocche” (cosa necessaria e informativamente opportuna per la popolazione ai fini dell’applicazione del divieto fino a quel punto!). Il divieto è permanente o provvisorio (altra cosa non specificata!). Avete deciso da soli, o condiviso (dopo aver informato) la cosa con la Capitaneria di Porto, Lega Ambiente o Mare Bandiera Blu? Abbiamo fatto video (http://www.youtube.com/watch?v=J49MDxLxHXE&list=UU_sVseI-_8hVQo-74XPDDHw&index=1&feature=plcp; Pulizia a Marsala: la festa e il museo delle fogne e dello sporco (Ord.Sind. 278 del 16-7-2012) per segnalarvi altro luogo da ripulire dai rifiuti abbandonati (mai rimossi dalla nettezza urbana privatizza e pagata a caro prezzo!) da una condotta irresponsabile di ignoti non molti ignoti marsalesi et alia ! Sindach’essa, scusi l’ardire! Ma Lei non era Assessore della prima Giunta del Sindàco Lombardo quando quella fogna, fin da allora, scaricava sotto il muso del Museo Anselmi? Come mai allora il mare di Marsala ha avuto la bandiera blu? Non è mai troppo tardi per rimediare alle sviste, vero? A nome dei “roccari” dello scoglio “2rocche” un saluto e un invito a bagnarvi insieme a noi alle “2rocche”!

sabato 14 luglio 2012

Nuova sfida poetica di N. Contiliano- “We are winning wing”

Luglio 2012. La casa editrice CFR di Gianmario Lucini pubblica “Noi Rebeldìa 2010, We are winning wing (a cura di Antonino Contiliano). “We are winning wing” – dedicato al poeta bolognese prematuramente scomparso (per suicidio), Massimiliano Chiamenti – è il quarto esperimento letterario-poetico collettivo e sine nomine che Nino Contiliano porta a termine. Cogestito con i poeti romani Marco Palladini e Francesco Muzzioli, il suo autore collegiale (soggetto collettivo) è stato denominato “Noi Rebeldìa 2010”. L’esperimento è stato avviato sul sito www.retididedalus.it (rivista del sindacato scrittori italiani) nell’Aprile 2010, e si è concluso nel Dicembre dello stesso anno. Il libro, che in copertina porta la china “Alle radice” del pittore Giacomo Cuttone, è accompagnato anche dal saggio introduttivo di Francesca Medaglia (Università La Sapienza, Roma) e dal saggio (già pubblicato in itinere) di Marta Barbaro (Università di Palermo). In appendice, il libro riporta anche le coordinate di poetica e di regolamentazione che hanno sostenuto le sei versioni (integralmente pubblicate) del libro di “Noi Rebeldìa 2010”, We are winning wing (CFR, Sondrio, 2012, pp. 78, € 10,00).
I poeti che (diversa la provenienza regionale italiana) hanno partecipato all’esperimento sine nomine di We are winning wing sono: Cavalera Nadia, Ciammaruconi Maria Teresa, Commare Giovanni, Lanuzza Stefano, Lunetta Mario, Muzzioli Francesco, Palladini Marco, Panella Giuseppe, Contiliano Antonino, Alaimo Franca, Aricò Giuseppe, Ciabatti Antonella, Gherib Asma, Nuscis Giovanni, Onida Leonardo Omar, Paci Natalia, Rosi Luca, Fiore Antonio, Cuccaroni Valerio, Beppe Costa, Menna Bianca Maria, Zinna Lucio, Piccolo Emilio, Sasso Francesco, Massimiliano Chiamenti, Ivana Conte, Gianluca Spitalieri, Davide Dalmiglio. Così tutti questi autori e coautori del libro danno vita a un soggetto plurale, ovvero a un’identità ibrido-collettiva che smarca finalmente il narcisismo dell’io individualistico e privato (già messo in discussione dalle stesse esperienze del surrealismo poetico) di poetese emozionalista diffuso e consolatorio di ritorno. Nel nuovo lavoro We are winning wing, invece, “Osserviamo sotto i nostri occhi, infatti, la nascita e la maturazione di questo autore plurale, che, nel corso del tempo, fagocita sempre più individualità per arricchirsi e fortificare la sua voce, implementandosi per frammenti ed elementi tecnici sottoposti ad ibridazione, per passare dell’Io al Noi. Ogni passaggio e ogni modificazione rappresentano un percorso in crescendo del tutto rivoluzionario: non più un singolo autore che si mostra per ciò che vuole apparire, ma una collettività che acquisisce forza e carica sovversiva mostrandosi per ciò che è.”(Francesca medaglia). “Il messaggio politico di we are winning wing non risulta solo veicolato dal gioco combinatorio e intertestuale, ma viene a coincidere con esso. Così come è nelle intenzioni di ogni avanguardia, la poesia si fa prassi, azione sociale, e dunque politica, volta a modificare direttamente il mondo circostante, con la differenza che nell’era della comunicazione elettronica le «uniche armi: / i versi e gli sberleffi» della poesia viaggiano su canali velocissimi e possono raggiungere ogni parte del pianeta. Ma l’operazione di “Noi Rebeldìa 2010” è rivoluzionaria anche nella misura in cui trasforma il canale della comunicazione, internet, da semplice mezzo a strategia compositiva, piegando il linguaggio e i mezzi del capitalismo digitale a un uso alternativo che destabilizza il sistema. Il rischio del gioco è che sia ringhiottito nel circuito – si pensi a WikiLeaks – e si disperda nella modernità” (Marta Barbaro).

venerdì 24 febbraio 2012

Tra i segni-scrittura del laboratorio artistico di Nicolò D’Alessandro





di Antonino Contiliano




Per aprirmi un varco tra le mie maceri era necessario
volare. E infatti ho volato. In quel mondo in rovina vivo
ancora solo nel ricordo, siccome si pensa al passato,
ho la mia memoria tanto tra i morti che tra i non nati; più
vicino alla creazione, ma non ancora abbastanza vicino.

Paul Klee

Il piacere del disegno, il segno-testo del piacere. La scrittura come disegno e il disegno come scrittura. Il segno ipogramma e ipersegno. L’ ipercodificazione artistico-poetica dell’alfabeto e dei semi del linguaggio, della sintassi e della logica dell’arte grafica e pittorica. Il segno come icona e non immagine-copia. Tutt’al più tra immaginal (immagine della mente), imaginary (immagine della fantasia) e iconizzazione. Il contenuto incarnato e rappresentato dallo/nello stesso segno e mediato dalla sua grammatica artistica. Un rapporto “motivato” e condizionato, autoriflessivo (non a caso il nostro, per il suo segno, aspira alla qualità della poesia). La verità del segno, il simbolo del senso: la coscienza della sua “autenticità” tra precarietà e universalità. Una semantizzazione semiotica del disegno-scrittura che, quale significanza di plusvalenza infra-inter-semiosi, gode anche della correlazione fonocromatica (precise scelte coloristiche e miscelature mirate), come dell’utilizzo della com-presenza dello stesso pittore-autore (come un altro Barone di Münchhausen). Una com-presentificazione che fa parte della rinnovata avventura peri-patetica grafico-pittorica del pittore palermitano, e offerta al passante, l’arrischiante che si avvia tra le sale del centro “Santo Vassallo” di Mazara del Vallo e i rigori dell’inverno 2012.



Queste le coordinate (alcune) che Nicolò D’Alessandro (fin dal prima opera posizionata all’ingresso della sala) – altro segno-dettaglio che traccia e intreccia fittamente il suo disegno contro l’horror vacui – presuppone e dichiara apertamente al suo visitatore intorno alle scelte operative e di elaborazione della sua po(i)esis estetico-artistica. Sono le sue opzioni, almeno così crediamo, estetico-artistiche e la “visione” ideo-logica che le supportano per la popolazione figurale-visuale con cui l’artista D’Alessandro gioca la rappresentazione simbolica dello spazio, del tempo e della funzione del segno come di-segno grafo-pitto-scritturale continuo e discontinuo, frattale. E ciò al fine dell’“estraniamento dalla realtà, di...isolamento dalla percezione del quotidiano..., di sondare tutti i percorsi del pensiero” (Nicolò D’Alessandro).
Se così è, allora il ricorso (analogico) alla procedura e ai processi del mondo simbolico del “frattale” è un altro modo, secondo chi scrive, per avvicinare (“dis-allontanare”) la verità del segno e il senso del segno-iconizzante nel/del “disegno-scrittura” dell’opera del grafico-pittore palermitano. Il disegno frattale di Nicolò infatti è come il geometrico “fiocco di neve” di von Koch. Il costrutto poietico del ritmo geometrico-matematico (realizzato con il procedimento della segmentazione e sulla base del principio di “autosomiglianza”) quale continuum della linea modellante la “figuralità” del vuoto (non visibile) dello spazio temporalizzato. Il tracciato cioè che – tramato dall’artista D’Alessandro – come una forza gravitazionale e la sua massa evolutiva dis-torcente, regolare-irregolare (dis-continua, continuum-fratto) del tempo e le sue “catastrofiche” pluribiforcazioni (uno sgomitolarsi-aggomitolarsi e viceversa, come un paradosso ossimorico permanente), e simulate sulle superficie piane dei supporti, si fa carico della narrazione delle emergenze figurative (spesso riproducesti la posizione facciale di ‘profilo’, sembra voler suggerire l’allestimento, della “pittura vascolare” antica) che l’autore pesca dal suo mondo possibile. Sono l’emergere delle creature del fantastico strano e meraviglioso entro le geometrie razionali del processo grafico-enunciato elaborato con il tratto ora denso ora sfumante del “segno” pittorico di D’Alessandro. Un’altra spia utile (diremo più avanti e per cenno) che, per alcuni aspetti (il tempo fluido e fluttuante dei “frammenti” e delle “rovine” che emergono dal significante, il vuoto da colmare svuotandolo), rimanda la memoria al tratteggio snello quanto semanticamente pregno di Paul Klee.

È febbraio 2012 e Mazara del Vallo nella sua Galleria d’arte “Santo Vassallo” ospita la mostra d’arte del grafico palermitano Nicolò D’Alessandro.
La mostra – successiva all’incendio (qualche anno addietro) che gli ha distrutto la casa (sembrava anche un museo dei ricordi, e pochi angoli di vuoto; e lì che ho avuto anche il piacere e la fortuna di andare a trovare l’artista) – espone la produzione dell’artista (grafico-pittore) all’insegna de “Il Segno Il Tempo Lo Spazio”, e mette a disposizione del pubblico e dei visitatori anche un catalogo. La pubblicazione del catalogo, dedicatogli dal Comune di Mazara del Vallo, riporta sia la riproduzione (emblematica) di parte dei suoi lavori. Produzione precedente e nuova.
Presenti nel volume, fra gli altri scritti, sono alcuni interventi critici e interpretativi che riguardano la produzione del nostro Nicolò D’Alessandro. Fra gli altri testi, illuminanti sono quelli delle dichiarazioni che lo stesso artistica lascia circa il senso del suo impegno di ricerca e sperimentazione simbolica e del medium (segno) privilegiato. Il segno-icona che im-piega per la poiesis della sua “enunciazione” grafico-pittorica. Non secondari sono gli intenti conoscitivi e presuppositivi (congeniali) e i nomi degli artisti referenti cui rimanda. Esplicito è il richiamo, direttamente evocato, che il pittore fa al nome dell’artista Gastone Novelli come partner “consanguineo”, o preferenziale riferimento inter-testuale per assonanza o correspondence estetico-po(i)etica: “Aspiro alla visione poetica dei disegni di Gastone Novelli – Novelli da parte sua ha avuto una certa con-sonanza con diversi e noti poeti (E. Sanguineti, E. Villa, E. Pagliarani, etc.) dell’ultimo Novecento italiano – che attraverso segni (lettere, vocaboli, immagini) racconta un labirintico itinerario grafico che pare senza fine” (Nicolò D’Alessandro).
Segno, tempo, spazio, disegno e piacere del disegno, scrittura, icona, visione e memoria, racconto, estraniamento e richiami d’altra geografia pittorico-iconica (gli “emakimoni” che rimandano ai rotoli giapponesi), mito, labirinto, sogno, moltitudine, precarietà, universalità, serialità, dettaglio, manierismo, autenticità, percezione del mondo e coscienza, tradizione ed esperienza personale, tensione immaginativa, il rapporto interno/esterno, etc. sono l’armamentario del vocabolario dell’officina-laboratorio dell’artista D’Alessandro. Non è sufficiente un’officina con i suoi mezzi. Bisogna anche che l’autore-costruttore la utilizzi come laboratorio per l’elaborazione della produzione (l’autore come produttore, W. Benjamin) che ci dica della idea del mondo scelto (suo), del suo rapporto di attesa-intesa con il pubblico e della modellizzazione dell’immaginario con le particolari scelte segnico-formali che fenomenizzano (in generale) i tópos archetipici e antropologici che alimentano l’immaginario del nostro grafico e pittore (sintomatiche sono per esempio, in tal senso, i lavori de “La valle dell’apocalisse” e le chine similari del periodo precedente).




E chiunque avvicini il suo (di D’Alessandro) lavoro come spettatore e lettore, prima ancora che usufruire delle “letture” (reali, implicite, ideali) altrui, deve far i conti con questo “campo di forze” che pre-cede la realizzazione “visuale” astratta-concreta, come già opportunamente ha notato il lettore-pittore Giacomo Cuttone nel suo pezzo saggistico: “Di-segno in segno-Le scritture visuali di Nicolò D’Alessandro” (http://mazaracult.blogspot.com/ e http://www.mazaraonline.it). Perché la mostra del grafico e disegnatore Nicolò D’Alessandro – Il segno Il tempo Lo spazio – si propone di restituire lo stretto e complesso rapporto tra immagine, scrittura e il segno-iconizzazione che, caratterizzante la poetica dell’artista, tramite il “di-segno” (come scrive G. Cuttone che in esergo cita Alberto Giacometti e la sua scelta per la “linea” e il “disegno”) si incarica di “Non rendere il visibile, ma rendere visibile” (Paul Klee) il vuoto che la “foresta” fitta e densa del segno simbolizzante insegue ininterrottamente come un orizzonte che si allontana mentre ci si avvicina alla “creazione”. Da qui, forse, la lunghezza e l’estensione sempre più dilatate impiegate dal D’Alessandro nel sogno in bilico di cum-prendere definitivamente la ricchezza inesauribile del vuoto, e di cui J. Lacan si è occupato sfruttando l’analitica dei pittori (La prima estetica – Se-minario VII , L'etica della psicoanalisi – di Lacan è infatti un'estetica del vuoto. È l’arte come organizzazione del vuoto. “La tesi lacaniana dell’opera d’arte come bordatura del vuoto [...] sospinge a preservare invece una distanza essenziale tra l’opera d’ arte e il vuoto che essa organizza e circoscrive”. Cfr. Massimo Recalcati, Le tre estetiche di Lacan, in Aut Aut, 326, aprile-giugno 2005, pp. 142-158).
Sì, perché, come diremo (per cenni) fra poco, Klee (non solo Gastone Novelli e Alberto Giacometti) può essere l’altra “intertestualità” e contestualità culturale storico-culturale cui, crediamo, si richiama (più o meno esplicitamente) il grafico palermitano. E non solo perché anche per Klee il vuoto non doveva essere soffocato da nessuna pretesa di perfezione e pienezza pittorica. Fra le note di “poetica” che Klee ci ha lasciato infatti si legge: “Nei tempi antichissimi, quando scrittura e disegno coincidevano, la linea era l’elemento primo”. E della “linea”, il nostro non ne fa proprio a meno: varia è l’enunciazione della sua forma.
Inoltre D’Alessandro, come Klee (nota in esergo), per le note vicende (l’incendio del 2008), deve rimparare a “volare” la “creazione” artistica tra le “macerie” e le “rovine” della sua (non solo del tempo collettivo della postmodernità del disincanto) personale apocalisse materiale e spirituale; e la sua invenzione/costruzione artistica deve pur dirsi/ci dell’indicibilità-dicibilità del “tempo” che ha tagliato la sua vita e la sua opera come solo la desertificazione sa fare quando si abbatte nella fitta vegetazione del segno-simbolico dell’artista. Una vegetazione folta e densa che scava nell’ “enigma”, e “straniante”, del “non visibile” tramite il fantastico meraviglioso o strano (Giorgia Lo Piccolo, Rita Verderame). Un groviglio labirintico che – ancora Giacomo Cuttone – “si aggroviglia” per “poi, finalmente, sgomitolarsi manifestando tutta la sua attualità anche nei suoi aspetti più drammatici”, di rinascita. Il colore – oro, rame, blu, giallo, verde, etc. – che fa capolino di nuovo tra il giallo macchiato dal verde, come in un riprendersi oscillante (la fluenza intermittente del timbro coloristico) dal disagio vitale dell’abbattimento salutare provocato dal male catastrofico (reale e immaginario), sono anche l’iconizzazione semantizzante la tensione meta-fisica del nostro. Una tensione che è transtorica ma non astorica, narrativa (racconta), e vibrata attraverso la frequentazione del segno ritmato con le peri-pezie della geometria variabile. Vero è infatti che la dimensione temporale (espressa nella serialità- la successione del segno) si realizza nella configurazione bidimensionale dello spazio (tela o rotolo) che la riceve come successione e simultaneità del segno lavorato ad emblema. L’esempio particolare che cerca l’universale (anche a costo di usare la parola “mito”). Il concreto-astratto cui il segno-icona dà corpo e materia come una forza gravitazionale che contrae o dilata la superficie in ogni suo “isotopico” spazio atomico-cellula-re innervato, e risonante di immediatezza e sveltezza. Forse l’immagine della stessa leggerezza e sveltezza per dire la caducità della contingenza del tempo in schemi che ne dinamizzano corporeità e incorporeità. La forma dinamica che, pur nello spessore e nella pienezza della con-figurazione e dell’astrazione (iconizzanti come nello stilizzato nelle sue silhouette di Klee).
Ma c’è di mezzo la carica ossessiva per l’amore del “dettaglio” e della pienezza che lo incalza, l’istanza del “mito” e la fuga-estraniamento (di Nicolò D’Alessandro) dalla “precarietà” della realtà, cose che suonano contro. E surdeterminati dai valori psico-antropologici e simbolici che cromatizzano l’immaginario dell’“estraniamento dalla realtà” (Nicolò D’Alessandro) e dal tempo, lasciano irrisolto il dubbio circa la presenza del tradizionale “simbolismo” sempre in agguato.
Ma il sintagma (“estraniamento dalla realtà”) del nostro pittore non esclude del tutto che l’estraniamento sia un allegorizzante sotto copertura, e per cui è ragionevole ipotizzare l’implicita parentela con il concetto di “straniamento” proprio all’arte moderna. La strategia che è in rotta con il simbolismo classico. L’arte moderna e i suoi procedimenti infatti recuperano la “precarietà” e la contingenza del tempo, e, rispetto alla fuga nella “redenzione del simbolo” per redimere la caducità temporalizzatrice, ne fanno il luogo privilegiato della produzione artistica in generale e delle contraddizioni materiali e culturali che la animano conflittualmente. Così il conflitto (alcune volte monocromatico) suggeritoci dalle scelte che mescolano e alternano le tinte timbricamente forti e netti (oro, rame, blu, azzurro) del caldo-freddo, vicinanza-lontananza e la relazione metamorfica della genesi e del ritorno alle origini.
Dopo tutto, grazie al cielo, ci sono artisti che vivono felicemente le contraddizioni culturali-ideo-logiche e le mettono in tela o rotolo con tutte le deformazioni (anamorfosi sintattico-semantica) cui il “segno” materiale ir-reale presta il fianco volentieri per narrarsi in sim-biosi con il mondo “altro”, il possibile. Il mondo del reale po(i)etico che ha scelto (così ci piace leggerlo) il nostro grafico e pittore-autore Nicolò D’Alessandro!
Salut!, Nicolò...

Il sarcasmo antireligioso del Marchese de Sade




L’editrice Stampa Alternativa, nella nuova collana “Fiabesca BenedettiMaledetti, curata dallo scrittore e critico Stefano Lanuzza, pubblica il suo primo volume (Français, encore un effort si vous voulez être républicains, Roma 2012, pp. 149, € 13,00). Di questo primo libro, dedicato al pensiero politico di Donatien Alphonse François de Sade – la penna della più “sfrenata immaginazione erotica” (p. 21); lo scrittore accusato (solo a causa dei suoi libri) di “empietà, oscenità e perversione” (p. 25) e proposto dallo zio abate per l’internamento in manicomio” (p. 20) perché segnalato come pazzo –, l’autore è anche lo stesso Lanuzza.
I prossimi volumi della collana fiabesca MaledettiMaledetti, diretta dal critico Stefano Lanuzza, sono quelli che riguardano Lou Salomè, Verlaine, Rimbaud, Nietzsche, Campana.
L’opera Français, encore un effort si vous voulez être républicains, curata dal nostro curatore – scrittore e critico già provato per il suo interesse verso le figure eretiche e le scritture demistificanti (ricordiamo Louis-Ferdinand Céline, l’altro grande maledetto del Novecento ripescato e pubblicato sempre con Stampa Alternativa) –, immette il lettore nella trama del “Quinto dialogo” del pensiero filosofico-politico del Marchese de Sade (il testo si trova raccolto nella Philosophie dans le boudoir) e lo obbliga a “misurarsi” con le sue argomentazioni prospettiche.
I ragionamenti (pensati dialogicamente, ci pare) di Sade – che si “proclama repubblicano e sembra professare un sorta di comunismo estremo” (p. 23) – si aggirano infatti sul rinnovamento etico e civile francese sulla base di poche leggi (semplici ed essenziali) e una regolamentazione pratico-giuridica corrispondente. In ciò si nota la tensione del Marchese e il desiderio di contemperare la prassi socio-politico-giuridica della nuova società borghese (nata dalla rivoluzione francese e da lui agognata) con i vizi, le virtù della filosofia senso-naturalistica e la felicità materiale immanente che egli riconosce come propellente intellettuale-immaginativo proprio.
De Sade, dalla prigione-manicomio, infatti scriveva alla moglie: “ Sì, sono un libertino, lo riconosco: ho concepito tutto quanto può concepirsi in tale ambito, ma certamente non ho fatto tutto quello che ho immaginato e di certo non lo farò mai. Sono un libertino, ma non sono un criminale né un assassino” (p. 5).
Calunnia, furto, libertinaggio, prostituzione e pratica mercenaria sono gli altri luoghi di invito alla riflessione sui “costumi” che, insieme alla vita e alle altre opere (indicate) del libertino, il lettore, spulciando i titoli e l’indice analitico del libro, troverà “Nel Boudoir del Gran Maledetto”.
Per le pratiche dell’ingaggio (si direbbe oggi) di truppe mercenarie, dell’adulazione cortigiana e pretaiola di laici e religiosi e degli abusi di potere (sembra essere in una società berlusconiana ante litteram), nel libro, il lettore si trova a leggere pure la “Lettera – scritta da Sade – di un cittadino di Parigi al re dei Francesi” .
È la lettera in cui si accusa il re di aver rotto il “Patto federativo” (p. 124) con il popolo, il solo sovrano. Nel testo della lettera, accusato di tradimento, è anche invitato a ravvedersi e a lottare contro i pregiudizi e gli abusi senza indugi. Una presa di posizione netta e decisa in nome di quella libertà ed eguaglianza conquistata dal popolo e degna di tutti i cittadini. I protagonisti e gli attori diretti che hanno fatto la grandezza della Nazione francese, e dato esempio perché gli altri popoli, oppressi dal dispotismo e dalla tirannide, ne seguissero la via e il fine.
“Quale differenza, Sire! Che la vostra sensibilità la percepisca. Preferite perciò questo modo di regnare a quello dovuto soltanto al caso; preferite i preziosi sentimenti di questa nazione, che apprezzandovi dovrà amarvi, ai consigli meschini e politici dei cortigiani corrotti che vi circondano e dei preti fanatici che vi seducono”(p. 130).
La religione e i preti. Un altro versante che Donatien de Sade demistifica e svuota di valore con l’ironia del sarcasmo. La sua regola preferita rispetto alla morte o alla pena di altre violenze gratuite quanto inefficaci.
Di fronte all’“incoerenza” e alla necessità di modifica dei comportamenti, tuttavia, continua il “grande maledetto”, “io non propongo massacri né deportazioni: tutti questi orrori sono lontani dalla mia anima perché io possa osare di concepirli per un minuto. [...] queste atrocità vanno bene per i re e per gli scellerati che li imitano”(p. 54).
Come si vede, la praxis che de Sade mette in moto è la freddezza dell’ironia dura, tagliente ed efficace quanto può essere quella che invece assume le vesti del sarcasmo e del ridicolo per le incisive e profonde lacerazioni che provoca nel tessuto ideo-comportamentale dei “costumi” reificati delle masse e dei suoi mediatori e/o apparati confessionali ideologici.
Così Donatien Alphonse François de Sade ci si presenta con la ghigliottina della risata disarmante e combattiva. La risata salutare che ogni “repubblicano”, storicamente laico, non dovrebbe mai abbandonare come arma critica e autocritica di fronte alle acrobazie dell’immaginazione e del potere noetico. Anzi dovrebbe privilegiarla e metterla in pratica esecuzione, permanentemente. Donatien, infatti, scrive: condanniamo “ad essere deriso, ridicolizzato, coperto di fango in tutte le piazze [...] il primo di questi benedetti ciarlatani che verrà ancora a parlare di Dio e della religione” (p. 55). Non massacri né deportazione dunque, pensa/immagina e scrive de Sade, ma la satira feroce e demistificatrice: “Usiamo la forza solo contro gli idoli. Non occorre che il ridicolo per chi li serve: i sarcasmi di Giuliano nocquero alla religione cristiana più di tutti i supplizi di Nerone” (p. 54).
Provocatorio e stimolante per la riflessione adrenalinica altresì è il suo discorso sul diritto che deve regolare la “proprietà” di ciascuno alla sessualità felice e al godimento disinibito e libertino nella società della “gaia scienza” razionale; la società per cui il popolo della rivoluzione ha dedicato mente e corpi onde ciascuno non fosse più condannato per le sue libere e convinte scelte di vita individuale e collettiva. Quelle scelte immaginativo-intellettuali che prima di tutto mettono in subbuglio le strutture archetipiche dell’immaginario antropologico coltivato ad hoc.
Il “BenedettoMaledetto” Marchese, infatti, così scrive: “qui si tratta solo del godimento e non della proprietà. Non ho nessun diritto alla proprietà di una fontana che incontro sul mio cammino, ma ho dei sicuri diritti al suo godimento: ho diritto di profittare dell’acqua limpida offerta alla mia sete” (pp. 80-81).
Secondo il “divino”, infatti, la costruzione sociale (quale “necessaria” connessione con la filosofia naturalistica delle pulsioni) nelle sue declinazioni politico-artificiali e innovativo-de-formanti, nonché contrastanti con l’immaginario etico-religioso e politico ossificato del vecchio e nuovo ordine, non può e non deve più giocare a nascondino, o dietro il paravento dei pregiudizi e delle violenze del potere che ossifica la propria egemonia di classe-di-diritto o di legittimo potere come comando e abuso nato da un asimmetrico rapporto di forze tra dominati e dominanti.
Del resto non bisogna dimenticare che per un Pascal il “diritto” è stato il primo atto di violenza che di fatto si è imposto come “ragione” che ha sopraffatto la ragione contraria, e che la scomoda assunzione della “crudeltà” libertina del divino Marchese non è esorcizzabile con i moralismi del comodino ideologico e moralizzatore egemone.