lunedì 7 maggio 2007

Una letizia spinoziana per Edoardo Sanguineti

di Antonino Contiliano


Intenderò dunque per letizia […] la passione per la quale lamente passa a
una maggiore perfezione; per tristezza invece,la passione per la quale
essa passa a una perfezione minore. […]Chi dunque immagina che
venga distrutto ciò che odia, si rallegrerà
Bento De Spinosa, Etica, III
[[1]]

La globalizzazione liberista, nel mondo moderno della rete telematizzata, non è una rottura qualitativa della diffusione e della penetrazione mondiale della logica capitalistica che l’alimenta e la diffonde, né il parto inevitabile dell’armonia prestabilita del migliore dei suoi mondi possibili. Il mercato mondiale e il mondo del simbolico, della lingua, dei linguaggi e dei segni, nonché del general intellectus (i principi, in generale, e la conoscenza e la pratica che il sapere collettivo e sociale ha accumulato nelle forme che ne ha maturato e sperimentato la storia), messo a lavoro, e in corso d’opera, come mercato e merce – realizzati attraverso la globalizzazione in rete ed elettronico-digitalizzata dei mercati finanziari e il movimento accelerato e delocalizzato dei capitali del Capitale transnazionale –, fuori le necessità metafisiche, sono la determinazione storico-materiale più aggiornata della vecchia anima di classe del plusvalore e del saggio di profitto. La ricerca scientifica e l’applicazione tecnologica degli imprenditori e capitalisti borghesi, meccanica ieri, oggi informatico-telematizzata, imitando e riproducendo sempre più sofisticatamente le capacità e le facoltà creativo-lavorative, la ‘potenza’ del corpo e della mente degli individui come essere sociali, ha digitalizzato le loro abilità lavorative e retificato l’insieme sotto forma di IA (intelligenza artificiale) e mondo super-connesso, e sottratto la ‘potenza’ del “valore d’uso” per piegarla, come sempre, allo sfruttamento quantitativo e qualitativo, all’oppressione e al profitto in favore dei pochi privilegiati.
Quei privilegiati che, poi, sono il “comitato d’affari” che detiene e dovrebbe gestire il cosiddetto potere pubblico in nome di tutti. Ma così non è. E che così non è lo testimonia e lo dimostra quotidianamente sia l’aumento delle diseguaglianze sociali, sia l’aumento della forbice tra ricchi e poveri (a danno di questi ultimi, che sono sempre in aumento), l’aumento del numero dei morti per cause di lavoro (precario e sottopagato), sia l’utilizzo della macchina statale in chiave poliziesco-intimidatoria e terroristica atta a criminalizzare qualsiasi forma di dissenso – emotivo, etico, intellettuale e politico, pratico-dialettico etc. – che non sia a immagine e somiglianza dell’eterno modello borghese vigente. Una perfetta alleanza ideologico-politica e pratica con il mondo di “santa romana chiesa”. Entrambi criminalizzano qualsiasi cosa o mondo che non gli somigli, ovvero che non ripeta e si ripeta a propria immagine e somiglianza.
E dietro le guerre di “civiltà” non c’è nessun bene né per l’uomo (l’uomo d’altronde è solo un concetto astratto è reso universale solo per bocca della logica umanistica; come dire una negazione, peraltro utile all’ideologia borghese, degli uomini concreti o nella loro reale esistenza di tutti i giorni alle prese con la soddisfazione dei bisogni fondamentali e dei desideri e sociali e culturali) né per gli uomini delle masse innumerevoli, ma il solo interesse esclusivo di classe degli stessi soggetti capitalisti che – giocando sull’egualitarismo liberistico unitamente al supporto di quello cristiano-cattolico gerarchico –, intransigenti verso la molteplicità eterogenea delle altre culture nate dalla relatività epistemica della modernità, mirano all’impossessamento forzato e privilegiato delle risorse materiali e immateriali (meglio dire naturali, artificiali e sociali) del globo e all’accesso esclusivo del sapere e del potere. L’“umanesimo” risulta una parodia luttuosa e una farsa quanto più, in tempi di “opposizione contro le forze produttive progredite” – dice Marx –, la classe dominante è scissa da quella dominata e rincara il ritorno ai valori già logicizzati e istituzionalizzati (l’uomo, la persona, la famiglia, la morale, l’identità, il bene pubblico, lo Stato e i suoi poteri, il lavoro, la produzione, l’educazione etc.) tradizionali come universali e immutabili.

Quanto piú la forma normale di relazioni nella società, e quindi le condizioni della classe dominante, sviluppano la loro opposizione contro le forze produttive progredite, quanto maggiore quindi è la scissione nella classe dominante stessa e con la classe dominata, tanto piú falsa naturalmente diventa la coscienza originariamente corrispondente a questa forma di relazioni, ossia essa cessa di essere la coscienza ad essa corrispondente, tanto piú le precedenti rappresentazioni tradizionali di queste forme di re­lazioni, nelle quali gli interessi personali, reali, ecc., sono enunciati come universali, si riducono al rango di frasi puramente idealiz­zanti, di illusione cosciente, di ipocrisia premeditata. Ma quanto piú vengono smentite dalla vita, e quanto meno hanno valore per la co­scienza stessa, con decisione tanto maggiore esse vengono affermate, tanto piú ipocrita, moralistico e santo diventa il linguaggio di que­sta società normale.[1]

Paradossalmente più la società diventa ipocrita e più, a dispetto del “teatro della crudeltà” di Artaud, aumenta la fascia dei creduloni che ripetono la favola umanistica del valore dell’uomo come persona o valore santo, dimenticando che la qualità di ‘persona’, nella società capitalistica, è legata al concetto di proprietà in senso borghese e non a una presunta e pura caratteristica psicologica, logica, spirituale e santa. E dal punto di vista logico è solo un’astrazione. La santità dell’uomo come “persona è « l'uomo », che in lui è soltanto un altro nome per il concetto, l'idea. Le rappresentazioni e le idee degli uomini, separate dalle cose reali, devono naturalmente avere alla loro base non gli individui reali, ma l’individuo della rappresentazione filosofica, l’individuo separato dalla sua realtà, puramente pensato, “l’uomo” come tale, il concetto “dell’uomo”.”.[2]

A san Max (Stirner), che interpretava le decapitazioni degli agioteurs e dell’honnêtes gens, nel periodo del terrore della rivoluzione francese, come azioni della ragion sufficiente dei “preti o pedanti rivoluzionari”, che “tagliavano la testa agli uomini”, poiché servivano l’uomo”, Marx ricorda che già Spinoza nel XVII secolo ebbe “l’impudenza di fare da “censore” a san Max, dicendo: “L’ignoranza non è un argomento”.”[2] Ma se l’ignoranza non è un argomento – san Max non spendeva neanche una parola “sulle ragioni per cui si tagliavano le teste, ragioni che erano fondate sugli interessi reali, empirici ed estremamente profani non degli agioteurs, ma della massa ‘innumerevole’”[3] –, deliberata e imperdonabile mistificazione è che i liberisti attribuiscano alla tecnologia odierna, e al sistema economico-politico che se ne serve per rivoluzionare le sue forze produttive e i suoi rapporti di produzione, la proprietà magica di rendere libero ed eguale ciascuno li frequenti o che risolva le ingiustizie volutamente perseguite e mantenute da chi su quelle nasce, cresce e vuole conservarsi allontanando da sé ogni e possibile spettro del divenire comunista e democratico.
La nuova nano-tecnologia, capace di incorporare il general intellectus e di farlo funzionare e produrre secondo il vecchio schema della forza-lavoro come valore di scambio, e a contratto ineguale, ha reso l’anima capitalistica solo più efficace e tempestiva negli interventi di espropriazione e adeguamenti proprietari transnazionali. E i vari organismi – Wto, Fm, Bm., ecc. – che, sottratti a qualsiasi controllo democratico e dietro il comando dei padroni del pianeta, presiedono alla morte e alla vita della sfera e dei suoi abitanti, non sono certamente organismi di beneficenza né tanto meno in preda all’etica ebraica della giustizia o all’etica cristiana dell’amore per il prossimo.
Due etiche paternalistiche e autoritarie. I catechismi e le direttive dell’ultima ora, in ordine alle coppie dichiarate o degli omosessuali o della bioetica in genere, sono più che loquaci.L’universalismo dei diritti dell’uomo, dichiarato come conquista culturale della modernità rivoluzionaria borghese, non suona di certo nessuna sinfonia armonica con le distruzioni, gli impoverimenti, l’oppressione, la repressione e l’intolleranza, i crimini e i genocidi cui la politica liberistico-militare del “liberalismo umanistico” si abbandona, animata com’è dalla diffusione della civiltà borghese con i nuovi e più potenti mezzi tecnici.
Grazie al celere miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, alle comunicazioni rese estremamente più agevoli la borghesia porta la civiltà anche alle nazioni più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pe­sante con cui essa rade al suolo tutte le muraglie cinesi e con cui obbliga alla resa anche la più irriducibile xenofo­bia dei barbari. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare, se non vogliono morire, il modo di produzione borghese; le costringe ad introdurre in esse la cosiddetta civiltà, cioè a divenire borghesi. Insomma, essa si crea un mondo a pro­pria immagine e somiglianza.[4]L’universalismo è solo quello delle dichiarazioni ideologiche ed è una stonatura con la verità pratica delle cose orrende che il liberismo militarista giustifica non meno di quanto facciano le epidemie della sovrapproduzione e la ferocia del debito estero che inginocchiano le Nazioni povere e impoverite.
E il Papa che ieri rilasciava il placet, oggi, come altri potenti, si limita a rilasciare scuse di circostanza per gli errori del passato e anche per il presente. Per il futuro non si dispera. Ne sa qualcosa il mondo dell’America latina che ha conosciuto anche il terrore della conquista coloniale europea accompagnata dalle benedizioni dell’universalismo “guerriero” della Chiesa cristiana. Ed è forse per questo che ancora oggi l’eurocentrismo e l’americanismo di “fine della storia” chiedono supporto alla Chiesa di Benedetto XVI, Ratzinger. Clausewitz insegna che le guerre si dichiarano e combattono sotto altre forme, sole o combinate.
Il nuovo stadio dello sviluppo capitalistico – dice Jürgen Habermas rispondendo al suo amico Eduardo Mendieta, seguace della teologia della liberazione – “si realizza sostanzialmente senza modificare l’orizzonte di una modernità sociale e di una autocomprensione normativa che risalgono alla fine del Settecento”[5] . Una normatività che ha imposto modelli di vita sociale con atti di forza mitici, sacrali, espistemici o comunque ripetitivamente fondativi. E sebbene non tocca agli eredi la giustificazione del passato – continua Jürgen Habermas –, è “proprio l’universalismo egualitario con cui oggi i neoliberisti sbandierano una prospettiva politicamente sfrenata di scambio mondiale – con lo stesso slancio con cui i colonizzatori di ieri sbandieravano il cristianesimo – resta anche, tutto sommato, l’unico criterio convincente per criticare la miseria di una società mondiale economicamente lacerata, stratificata, tutt’altro che pacificata”.[6] La pacificazione è tutt’altro che perseguita. Anzi, ironicamente, le forme di embargo o le operazioni di guerra non militari ne costituiscono una tragica farsa. E lì dove povertà, eterogeneità e singolarità, soggetti collettivi decentralizzati, comunitari senza delega – proprie al nostro tempo e alle nuove soggettività come “potenza” autonoma (dai centri sociali alle ong e a tutti i movimenti dal basso e dei forum sociali, nazionali e transnazionali, contrapposti ai G7/G8) – hanno maturato altre resistenze rispetto alle vecchie macchine d’identità nazionali (partiti, sindacati, circoli, chiese…organizzazioni “para”, agenti d’appoggio esterno ma ufficialmente non riconosciuti) e acquisito altra coscienza di classe comunitaria e praticato altre forme di rivoluzione resistente (forme di discussione e azioni protestatarie dirette o fuori il controllo delle istituzioni che dividono il sociale e il politico, riconosciute ed autorizzate dalla legalità statuale), per questo, invece, sono state criminalizzate. Le forme di antagonismo diverso, specie dove il neoliberismo spinge la creatività comunitaria offesa a difendere e conservare se stessa, sono state messe anche al bando del silenzio o della morte o del carcere costruendo sempre più un allineamento piramidale. E l’allineamento, come suggeriscono i dati cui, qui, si fa riferimento, non certo testimoniano di una umanità concreta che gira democraticamente attorno al centro di una sfera ( equidistanti –tutti – dal centro); si dilata piuttosto per allargare la base di una piramide il cui vertice si assottiglia sempre di più verso l’acuminato.
Se su sei miliardi circa di uomini che popolano il pianeta terra, oggi, solo un miliardo di persone, appartenente ai cosiddetti paesi ricchi, gode del 77,5% del Pil (la ricchezza mondiale prodotta o Prodotto Interno Lordo) e lo amministra –, e se fra i privilegiati della stessa classe dei ricchi ci sono ulteriori privilegiati di lusso (circa 350/358), quelli che hanno un patrimonio stimato in 760 miliardi di dollari – equivalente al red­dito complessivo dei due miliardi più poveri della popolazione mondiale –, mentre solo il 22,5 % del Pil è distribuibile fra il grosso dei cinque miliardi, cioè l’85,2% della popolazione del pianeta, vuol dire che il sistema capitalistico non funziona per tutti e che è solo il prodotto storico di un progetto “ideologico” di classe privilegiata che si è imposta e diventata dominante. Questa certo non mira all’abolizione delle classi soggette o comunque costrette a uno scambio contrattuale ineguale nonostante la nuova forza-lavoro, nella nuova società industriale informatico-telematica e del capitale linguistico-comunicativo, dove non è più possibile distinguere tra occupati e disoccupati (tutti si è sussunti nella misura astratta del tempo unificato di lavoro dell’iper-capitalismo), ha maggiore autonomia di azione antagonista e liberatoria.
Il valore d’uso della forza-lavoro è infatti praticabile anche come ‘potenza’ socializzata e sottraibile alle leggi dell’esclusiva appropriazione capitalistica in quanto e non solo l’aggregazione conflittuale ha sperimentato, oltre e in alternativa alle forme delegate e rappresentative, nuove forme di democrazia comunitaria basata sui bisogni sociali e comuni fondamentali (“beni comuni”) e praticata dalle nuove soggettività con forme di autogoverno dal basso, ma anche perché le nuove tecnologie sfruttano il patrimonio del sapere comune, storicamente elaborato e socialmente accumulato, anche nella forma della cooperazione aperta o socializzata, sottratta al taglione delle royalties o del diritto di proprietà capitalistico-borghese per le opere di ingegno. È il sapere logico-linguistico-semiotico e tecno-segnico delle varie scienze dure e umanistiche che, generalmente, indicato come general intellectus – l’insieme del patrimonio storico (capitale fisso) di conoscenze, categorie, lingua e linguaggi specializzati, organizzazione segno-comunicativa e produzione-scambio-circolazione nelle forme del software (open source) –, il motore vitale della nuova produzione “immateriale” dell’industria post-fordista, che benché ceduto però rimane come capacità individuale-sociale e valore d’uso non espropriato, e come tale rimesso in circolazione d’uso sociale fuori la logica capitalistica.
Ed è su questo versante, quello della nuova tecnologia informatica, capace cioè di riprodurre grazie alla capacità acquisita di trasformare l’I.A. (intelligenza artificiale) in mezzi di produzione sottratti alla conflittualità sociale dei soggetti-tele-operai e della loro creatività informatica, che oggi si gioca la lotta di classe per il dominio e il controllo di questa “materia” industriale o altrimenti detta della tecnologia linguistico-comunicativa con tutto il suo enorme potere di costruzione, autotrasformazione e seduzione. Il capitalismo non ha mai creato tecnologia, forza sostitutiva delle corrispondenti abilità lavorative, e specializzate, dei lavoratori dipendenti nei vari settori (primario, secondario e terziario) perché questi potessero emanciparsi, liberare la loro umanità creativa e avere maggior tempo libero da dedicare all’operare ludens e umanistico; ha impiegato la tecnologia per aumentare la parte fissa (e perciò sotto il proprio, diretto ed esclusivo potere) del proprio capitale d’investimento nei confronti della parte variabile rappresentata dai lavoratori dipendenti. Le ragioni del plusvalore e del profitto sono abbastanza note per insisterci ancora. La logica non è cambiata, semmai è diventata più aggressiva e virulenta. Una capacità tecno-produttiva, qual è oggi quella software elettronico, del digitale-virtuale e dell’industria della comunicazione (le multinazionali dell’informazione e della comunicazione estetizzante e passivizzante), sottratta alla conflittualità e all’antagonismo sociale delle classi emarginate e impoverite sempre di più (sia sul piano della distribuzione della ricchezza, dei servizi, della lingua e dei linguaggi contemporanei), così potente, pervasiva e piegata allo sfruttamento dell’ambiente umano e non umano in funzione del trionfo del consumo finalizzato al profitto e all’agio di pochi privilegiati, non può certo dirsi allora che aumenta il tempo libero dei lavoratori e dipendenti. È semmai il tentativo estremo di proletarizzare-robottizzare tutti, lavoratori e disoccupati, senza distinzione di sesso o religione o altro, coltivandone l’esser-ci come “cervelli in bottiglia” e duplicazione virtuale in stile matrix.
La tecnologia sia quella meccanica o elettronico-informatica, fortemente intrisa di ideologia e potere, paradossalmente e nelle mani del Capitale, ha la natura multiforme di Giano. Rende dipendenti e schiavi da rapporti sociali dominati e dalla logica della sua produzione e riproduzione coatta, mentre sembra rendere ciascuno più libero e con maggior tempo a disposizione per sé e gli altri in nome di certi valori “universali”, ma che invece sono storici e determinati dallo sviluppo delle forze in atto e in conflitto. E in atto lo scontro è giocato anche per il dominio sulla “nuda vita” e la sua intera sussunzione nella misura astratta degli scambi monetari (dollaro, oro o altro che sia l’unità di misura) e del “denaro linguistico”, e il cui fondamento è la fusione del “tempo assoluto” di lavoro con quello del “tempo relativo” dell’organizzazione della globaliziper-zazione capitalistica delle attività degli uomini.
E nessuno sembra poter sfuggire a questa logica di suicidio e morte collettiva, così ben curata entro le maglie degli attuali sconvolgimenti di potere planetario tra le politiche della sicurezza antiterrorismo e della “tolleranza zero”. Per emarginati, dannati della terra, precari e poveri di tutto il mondo, ulteriormente impoveriti, la morte, lo sfruttamento e l’oppressione marcia sui binari della beneficenza, del neocolonialismo del Wto, delle guerre classiche e moderne; ricatto per fame, sete e aggressioni “canaglie” per il controllo delle risorse e della biodiversità sono un altro aspetto della violenza di classe che si consuma anche come genocidio, esproprio delle ricchezze e delle risorse degli ambienti di vita degli altri.
Che prenda il nome di sfruttamento o distruzione delle possibilità degli altri, accaparramento consensuale o forzato della materia-energia di contesti altrui in nome dello sviluppo o copy right o royalties sui prodotti dell’ingegno umano e del suo capitale simbolico immateriale, ossia dei rapporti culturali-scientifici-sociali reificati, oggettivati e trasformati in tecnica software e hardware per essere messi al servizio del profitto e dello stile di vita della civiltà turbo-capitalistica, il capitalismo non ha nessun volto umano o riformabile. Anzi, Il suo doppio volto di umano e disumano, è il motore permanente di una rivoluzione endogena continua che fa e disfa forze produttive e rapporti di produzione contando sull’inerzia di certa ideologia e dei segni, del mondo simbolico, a cambiare senso e direzione con la stessa velocità rispetto al discorso strutturale e alle sue appendici istituzionali e giuridiche.
Se il grosso della popolazione deprivata di quella ricchezza, che pur produce direttamente o indirettamente, vive nel Sud del mondo, poco o affatto sviluppato, o nelle aree geografiche cui appartengono i paesi più poveri, che vivono con meno di un dollaro al giorno e accumulano povertà vecchie e nuove, allora vuole dire che quel sistema di sfruttamento è funzionale al dominio della classe egemone, seppure minoritaria, e alla sua conservazione sine die a discapito di qualsiasi altra classe, individui e collettività. Il suo progetto appare sempre più come a una polarizzazione marcata: Nord e Sud, ricchi e dannati, armati e disarmati, monopolizzatori dell’informazione e deprivati dei media e del medium.
Se la fascia dei poveri e degli oppressi aumenta, e le nuove forme di sfruttamento e appropriazione privata transnazionale, persino del general intellectus, si aggiungono a quelle vecchie e persistenti, mentre la fascia dei ricchi e potenti, signori della guerra e della vita, persino della “nuda vita”, si contraggono e concentrano, l’odio lievita e il conflitto di classe non scompare, si polarizza. Il “sano odio di classe” verso gli sfruttatori è una passione attiva, una “letizia d’essere” – direbbe Spinoza – che non va spenta ma alimentata. L’odio è il sentimento che vuole liberarsi della “causa esterna” che procura la diminuzione della potenza d’essere (corpo e mente) di ciascuno, individuo e gruppo sociale che ne soffre, e perciò della “tristezza”: l’odio è “tristezza accompagnata dall’idea di una causa esterna” così come l’amore “è letizia accompagnata dall’idea di una causa esterna” (Spinoza[7]), che favorisce la pienezza d’essere e la conservazione del suo piacere. Ma i registi della costruzione della piramide non sono affatto propensi a permettere a tutti il divenire “letizia”.
Se capovolgere la piramide non è obiettivo cui bisogna rinunciare, non è certo il rifiuto del “riconoscimento” dell’odio di classe e dell’alterità della lotta di classe che può convincere della “santità” del dominio e del controllo del capitalismo liberistico e del suo comitato d’affari. Nonostante le varie conquiste formali e culturali, fino a quando – senza volere il comunismo né come uno stato di cose o un ideale da realizzare “per decreto popolare” cui conformare il reale – le cause “esterne” – direbbe Spinoza – della povertà e degli impoverimenti perseguiti non vengono rimosse in favore della “letizia”, il pieno sviluppo della potenza d’essere individuale e sociale (corpo e mente) di ciascuno e tutti, non c’è comunicazione informatica e discorsiva che possa far desistere dalle lotte di resistenza, attacco e liberazione.
Quella dei nuovi liberisti, sangue non mente, è una classe che sa anche ri-crearsi i suoi soggetti e consumatori impiegando i suoi mezzi vecchi e nuovi, non ultimi, oggi, quelli dell’industria retorica dell’informazione tecno-tv-telematica. Mantiene il suo prodotto vegeto e funzionante a suon di violenza e formazione di opinioni e volontà variamente dipinte; non ultime anche quelle legate alle forme della “biopolitica” e del “biopotere” analizzate da Michel Foucault, o in quelle, dopo l’11 settembre 2001 dei post crolli torri gemelle americane, muri berlinesi e cinesi…, messe a punto dalle politiche della “sicurezza” securitarie o scuritarie! Quell’11 settembre 2001, il nuovo 19 post Cristum natum epocale, la data delle borse e del terrorismo posta a guardia dei padroni indiscutibili del neoliberismo globale come il giorno della nuova ab urbe condita, entro cui si contano gli amici nuovi o i nemici da abbattere. E “se adunque alcuno è in Cristo, egli è una nuova creatura (2 Cor. 5, 17) ”[8] e gli altri, quelli del “ sano odio di classe”, sono i vecchi e sorpassati, gli eretici ed i dis-etici antimodernizzanti; “l’antico è passato, ecco, tutto è fatto nuovo (2 Cor., cit.) ”[9].
E se tutto ciò non è ideologia, come non prestare ascolto al ritorno della voce degli “spettri”. Qualcuno li ha visti addirittura aggirarsi per l’Europa (Jacques Derrida, Spettri di Marx), forse meglio per l’UE della mercificazione individualistica e nei luoghi fuori o della cultura e organizzazione comunitaria del “noi”. Cosa fare se non accertarsene guardando le contro-misure tendenziali antidemocratiche delle decisioni dell’emergenza continua, e continua per non arrestare, o arginare, il torrente in piena del liberismo senza frontiere! Come non confermare che l’ideologia del capitalismo neoliberista è l’ideologia dello spirito speculativo “santificata” (nel senso marxiano vero e proprio di realtà rovesciata e sostanzializzata) e vs il mondo delle cose effettivo, che a dispetto del suo dichiarato esaurimento “ continua sempre ad esistere”[10] non come virtuale realizzato ma prodotto storico determinato dalle forze produttive in corso d’opera? Ma il mondo “santificato”dei vari liberisti spirituali però continua ad essere una realtà mistificata e mistificante tenuta in piede con la forza delle loro armi e delle parole astratte.
È il dettato coercitivo di una minoranza di mercanti – non meno totalizzante e liberticida di quelle del secolo scorso – disponibili a qualunque rotta pur di rimanere sempre a galla. Un’élite che contrabbanda i propri interessi di classe come interessi generali e della collettività umana sotto l’ombrello della “rappresentatività” parlamentare astratta (sebbene raggiunta attraverso lunghe lotte), formale (universale vuoto), la cui organizzazione istituzionale, storicamente, sempre determinata rispetto agli sviluppi delle sue stesse forze produttive, è sempre egualmente perciò pronta a essere rimpiazzata con una forma più consona al momento. Democrazia politica liberale e libero mercato non hanno mai fatto coincidere diritti politici e sociali, e nessuna parola evangelica ha assicurato il traguardo storico promesso.

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare incessantemente gli strumenti della produzione, quindi i rappor­ti di produzione, di conseguenza tutto il complesso dei rap­porti sociali. Condizione indispensabile d’esistenza di ogni classe industriale precedente era, al contrario, la conser­vazione inalterata dell’antico modo di produzione. Il co­stante rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di ogni condizione sociale, un’eterna incer­tezza e un movimento senza fine contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le epoche precedenti. Vengono meno tutti i rapporti solidi e irrigiditi col loro seguito di opi­nioni e concetti rispettati per tradizione, mentre i nuovi in­vecchiano ancor prima di essersi potuti impiantare. Tutto ciò che era stabilito e rispondente alla situazione sociale svanisce, ogni cosa sacra viene profanata e gli uomini si trovano costretti infine ad osservare senza più illusioni la loro condizione di vita, i loro reciproci rapporti. [11]
E le sue parole d’ordine – fine della storia, morte delle ideologie, esaurimento della lotta di classe, emozioni e non pensiero, consumi e non altro, mercato e mercificazione, non comunismo (“vecchio ferro stalinista”), profitto e flessibilità globalizzati, “serietà” del lavoro e non conflittualità sociale o dissenso e/o ironia, politica come variabile dipendente dai padroni e dal mercato, “revisione” della stessa Costituzione repubblicana italiana, rivisitazione del “fascismo” e riciclaggio del suo detto di guerra ubbidire e combattere in taci e consuma, ecc. – non sono che i suoi canali d’uso corrente per addestrare e amministrare le soggettività individuali e collettive pronte per il mercato di scambio nello stesso mercato della rete telematizzata che ha globalizzato gli stessi processi di migrazione demonizzandone però i pendolari e gli arrischianti.
Ma tutto ciò va messo alla gogna del sospetto e delle responsabilità etico-politiche della conflittualità di segno contrario e dell’antagonismo del divenire comunista, che è anche un bi-sogno; e i bi-sogni non si possono esaurire in enunciati di dialogante umanitarismo guerreggiante, di castrazioni e autocastrazioni sublimanti o opere pie, svianti anche per smentire la disseminazione razzistica galoppante della propaganda – sferrata con ogni mezzo mediatico e non – contro gli oltre 20 milioni di im­migrati, che vivono attualmente nell’Europa occidentale e sul cui lavoro clandestino e sfruttato vivono i cosiddetti civili occidentali, molti dei quali cianciano contro gli integralismi non occidentali come causa del loro “malessere”.
Nel mondo mass-mediatico, e del www in particolare, dove il linguaggio è il medium sine qua non per la costruzione dei messaggi e della comunicazione, e la realtà spesso coincide/è con/la simulazione (tanto che Baudrillard ha coniato la felice espressione di “delitto perfetto”), non c’è neutralità che tenga. Se poi totalizza l’amministrazione del comando strategico e tattico del “comitato d’affari” del “pensiero unico” del liberismo criminale – che governa il pianeta con la presunzione e l’arroganza di far coincidere la realtà con la propria “verità” di dominio, controllo, guerra e distruzione –, allora il conflitto e l’antagonismo sono un obbligo etico-politico inderogabile, e “l’odio di classe” degli oppressi non è la “vera violenza” ma la passione attiva, consapevole, e non demonizzabile, di chi rifiuta e respinge al mittente – i soliti padroni e i convertiti dell’ultima ora – presunzioni di santità e beatificazione della propria violenza storica.
E di “santi” oggi non ne mancano, anzi; a quelli che la Chiesa certifica, come in una catena di montaggio a ritmo continuo attingendo alle proprie riserve, si aggiungono quelli che, fra gli ex comunisti e marxisti, si prostrano e si prenotano esternando condanne e anatemi contro chi – come Edoardo Sanguineti – analizza, scrive e parla in termini di allegoria e parodia, di “lotta di classe”, di conflitto e antagonismo materialisti. Nulla del resto ha perso in valore di analisi rispondenti il materialismo storico, e nei contesti dove denuncia le cause dei disagi sociali legate al presunto destino “liberale” dell’intera umanità – che non siano l’Europa di Bolkestein e il mondo dei mercati – sperimenta forme di “giunte del buon governo”, il “comandar obbedendo” o il “cambiare il mondo senza prendere il potere” o il prendere il potere senza il dominio, e aggiorna l’esperimento comunardo di cui ha parlato Marx ne La guerra civile in Francia (Raúl Zibechi, Disperdere il potere, Cantieri: Carta/Edizioni Intra Moenia 2007). Se le forze produttive, i rapporti e la storia cambiano continuamente nella tempestività o intempestività del loro kairòs – “la borghesia non può esistere senza rivoluzionare incessantemente gli strumenti della produzione, quindi i rappor­ti di produzione, di conseguenza tutto il complesso dei rap­porti sociali” –, la liberazione rivoluzionaria non può mai essere una parodia luttuosa.
Dei nuovi “santi” o convertiti di “rifondazione comunista”, per analogia, si può dire ciò che di san Bruno e san Max disse e scrisse Marx stesso a proposito degli “speculatori tedeschi”: “ogni nuovo concorrente ha bisogno per la sua merce di una chiassosa pubblicità storica”.[12] E se a questa possiamo aggiungere il ritmo di una canzone, sebbene in stralcio, vorremmo far allegorico tesoro di alcune strofe della canzone[13] popolare che Marx stesso dedicò a Jacques le bonhomme, San Max:

Il padrone manda Giovanni,
E gli dice che tagli l’avena,
Giovanni non taglia l’avena,
E non fa ritorno a casa.
Il padrone manda il cane,
E gli dice che morda Giovanni,
Il cane non morde Giovanni,
Giovanni non taglia l’avena,
E non fa ritorno a casa.
[…]
Il padrone manda il boia,
E gli dice che impicchi il beccaio,
Il boia impicca il beccaio,
Il beccaio scanna il bue,
Il bue beve l’acqua,
L’acqua spegne il fuoco,
Il fuoco brucia il legno,
il legno batte il cane,
Il cane morde Giovanni,
Giovanni taglia l’avena,
E tornano tutti a casa.

Consapevoli che non c’è pensiero e azione che non passi attraverso il linguaggio, e che non tutti i filtri depurano l’acqua sporca e inquinata (Hölderlin ricorda che il linguaggio è “il più pericoloso dei beni” perché testimoniando di una “tradizione” non è immune dell’ambivalenza del pharmacon), per la vita della “mente” e dell’azione è necessario e salutare svegliarsi tutti direttamente e mettere a nudo i meccanismi delle mistificazioni del “comando”. Questi non sono fatti puramente linguistici o spot pubblicitari colorati dai sorrisi dei cavalieri, ma azioni di comando e di uniformità cui bisogna riferirsi resistendo e attaccando nello stesso brodo della pluralità culturale e politica emigrante dell’oggi che si trova a fare i conti con la globalizzazione liberista. Il movimento zapatista dell’America latina è abbastanza ricco di spunti di riflessione e azioni. A volte l’evidenza degli eventi non è così forte e corrosiva da spingere ciascuno a scoperchiare le incrostazioni linguistico-ideologiche che, dietro il “bombardamento” mass-mediatico dei padroni, tesi ad amministrare e manipolare le disinformazioni, hanno preso il posto degli eventi e dei fatti. Questa fenomenologia alienata – come la parabola del buon seminatore del vangelo – pesca anche adepti in ogni contesto sociale: dannati della terra, semplici, intellettuali et alia. I consensi così accalappiano i dominati e rinforzano i dominatori, che, censori, si sentono immuni dalla censura, e giudici assoluti; e per potere e arroganza si propongono non sottoponibili alle stesse regole di giustizia e verità che tentato di imporre a sei miliardi di esseri umani. E non c’è, comunque, bisogno di ricorrere all’autorità dei maître à penser, perché la verità dell’assunto emerga. Basterebbe essere spettatori disincantati o interessati a disambiguare i messaggi e le fallacie delle sirene mediatiche, quelli venduti dalle multinazionali dell’informazione “autorizzata”. Neutralità, autonomia e indipendenza del linguaggio, come la vecchia politica rappresentativa, debbono fare i conti con i filtri della classe dominante e delle scelte. Coscienza, consapevolezza e azioni sono sempre un prodotto storico e materiale e la loro trama , nello sviluppo, si può intercettare solo frammista ai filtri.
Fra i consensi, le uniformità di comportamento o le smentite – che l’attuale modello neoliberista del mondo ha collezionato sul versante della realizzazione delle scelte economiche, sociali e politiche, il cui raggio di azione non investe il chiuso di un territorio ma è deterritorializzato – sono lo specchio meno deflettente. Un occhio e delle analisi disincantati coglierebbero invece che le decisioni “deliberative” scavalcano le autonomie delle stesse sovranità nazionale dei popoli e dei suoi organismi, pur rappresentativi, che da tempo erano coltivati come intangibili; ora sono invece rimossi (“Vengono meno tutti i rapporti solidi e irrigiditi col loro seguito di opi­nioni e concetti rispettati per tradizione, mentre i nuovi in­vecchiano ancor prima di essersi potuti impiantare. Tutto ciò che era stabilito e rispondente alla situazione sociale svanisce, ogni cosa sacra viene profanata e gli uomini si trovano costretti infine ad osservare senza più illusioni la loro condizione di vita, i loro reciproci rapporti”[14]) perché gli “esecutivi”, concentrato e unificato il potere decisionale e di intervento, dovrebbero agire prontamente contro il veleno dei terroristi e nemici della sicurezza dello stile di vita della civiltà. Le agitazioni del malessere sociale diffuso, e dilatato anche per l’ingresso delle nuove socialità multietniche, viene ignorato o declassato a reazioni delittuose e criminose rispetto all’ordine costituito e al “consenso securitario” costruito ad hoc, il consenso della persuasione intavolato per “debellare” la presunta unica causa del malessere, identificata con la peste del terrorismo e dei terroristi (cui vengono ridotte ogni forma di protesta e ribellione radicale o d’identità irriducibile). Il caso del sequestro del religioso islamico Abu Omar (il suo imprigionamento illegittimo e la sua liberazione successiva), eseguito solo con l’arroganza, la prepotenza e la complicità dei cosiddetti “servizi segreti” di Stato/i (americani e italiani…), e da chi sa essere forte e impunibile, la dicono lunga sulla giustezza della linea del terrore come scelta di conduzione politica “universale” e guerra permanente per eliminare le tensioni antagoniste e l’Altro. Aver “personificato” in Al Qaeda il demone degli “Stati canaglia” e nella guerra antiterroristica e globale l’angelo delle borse – che difende dai crolli mercati finanziari e altro – non ha certo chiarito le cose individuando cause e responsabilità oggettive, o fatto trionfare il bene in nome del quale non hanno mai termine i bagni di sangue del nemico di turno e di comodo.
La panna delle campagne di guerra “anti-terrorismo”, montata per scatenare una lotta preventiva contro un presunto complotto avverso il mondo civile americano-occidentale, non è cosa diversa da una tattica tutta ideologica per conservare le fette di dominio e controllo conquistate, e tenere a bada e sotto chiave i malesseri e le ingiustizie del liberismo globalizzato. Non c’è straccio di prova contro nessun mandante individuato e processato se non con la costruzione ad hoc di prove fasulle e pretestuose; non c’è indagine e ispezione che testimoniasse dei tanto decantati arsenali “contro l’umanità” presso gli attori dell’“asse del male”. Di questo c’è solo neve al sole. Se si riconosce poi che gli arsenali di distruzione (di nuova e vecchia generazione) sono solo nella proprietà delle mani asimmetriche dei signori delle guerre, e detentori della ricchezza concentrata, il gioco delle mistificazioni non ha bisogno di nessuna lotteria per sorteggiare la paternità delle “idee” di distruzione terroristica messe in circolazione, e il nome dei padri fondatori.
Il teorema de L’ideologia tedesca (Marx-Engels) regge perfettamente; ancora “le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti”. E il teorema non si applica solo all’alienazione politica ma anche a quelle delle pratiche linguistiche discorsive d’ordine e di propaganda persuasiva. L’ordine dei discorsi, che tocca le diverse sfere della vita civile e politica della gente, della vita nazionale e globale, anche di quella che vive la “modernizzazione” in atto, ha solo aggiornato mezzi e capacità di penetrazione sofisticata.
Il discorso di rottura e di critica di Michel Foucault – uscito dalle maglie delle secche spiegazioni meccanico-economicistiche – sui dispositivi e le pratiche discorsive, che toccano la formazione delle soggettività moderne, non hanno negato e smentito la legge storica individuata da Marx. Visto lo spessore genealogico, archeologico e processuale delle condizioni storico-materiali ha solo riannodato altri fili, di cui non si può più misconoscere il condizionamento, e ha dato un quadro più amplio e complesso ma non meno propenso alla lotta e alla resistenza attiva.L’aggiornamento che Einstein, con la teoria della relatività generale, ha operato della vecchia lettura meccanica dell’attrazione gravitazionale (Newton) e universale dei corpi, non ha smesso tra i “ferri vecchi” la correttezza scientifica della legge di gravità stessa e la sua capacità di previsione, ne ha solo ampliato e correlato il potere applicativo in base alle nuove conoscenze e condizioni verificate.
La società del capitale elettronico non ha messo fuori uso l’assunto materialistico de L’ideologia tedesca di Marx, e il suo “teorema” di fondo che marca la dipendenza dell’idee d’epoca (messe in circolazione) dalla “santità” della rappresentazione creata dalla stessa classe dominante piuttosto che dallo stato effettivo delle cose. Così, alla stregua dell’antiterrorismo, attribuito a individui ritenuti pericolosi (per taglia cucita addosso) su misura, anche per la creatività personale, per esempio, è applicato lo stesso modello. La creatività, funzionale alla fluidità dell’ondata produttiva elettronica, è così “potenza” e merito di capacità solo individualisticamente intesi, si che ogni singolo atomo umano/umanoide è faber di se stesso e/o prosumer, imprenditore di se stesso, autonomo e indipendente gestore della “potenza” della propria forza-lavoro ma, sempre, però, secondo le stesse regole del “valore di scambio” stabilite unilateralmente dalla classe egemone.
La favola ha anche convinto, a quanto pare, le stesse forze progressiste di “sinistra” e l’opinione pubblica più diffusa. La sussunzione alle idee della vigente via capital-liberista – sia che riduca ogni forma di ribellione e antagonismo alla “violenza” criminale di presupposti individui a ciò predisposti, sia che riduca a capacità atomistiche anziché sociali la capacità d’essere o potenza di ciascuno – non sembra, nelle nostre contrade occidentali, aver ostacoli di grossa resistenza politica oppositiva.
Depressione, povertà, intolleranza o altro non sarebbero che da imputare ai soli individui, o a quegli individui o gruppi che non solo non sanno sfruttare la potenza della creatività personale e del general intellectus, ma non accettano di buon grado il nuovo ordine e controllo del mercato mondiale. Il mercato che, governato da un potere unicum, gerarchico e senza opposizione, esporta civiltà e democrazia “universale” con guerre di “stato” e coalizioni cointeressate di Stati. Stati che, comunque, non godono più della stessa sovranità degli Stati nazionali della prima ora. Anzi è da dire che il vertice del dominio gerarchico, grazie anche ai potenti mezzi elettronici gestiti dai borghesi della nuova generazione telematica, non ha più bisogno della divisione dei poteri se non come una favola di parata.
Se il capitalismo neoliberistico gioca di tutto per far sì che la realtà coincida con lo status del suo unico modello produttivo, e consequenziali rapporti di produzione subordinati alla logica del profitto e del dominio sociale allargato, sfruttando lavoro materiale e immateriale e imponendo il mercato senza regole, “libero”, il ricatto del precariato, la paura della sicurezza minacciata dai ribelli (nemici interni ed esterni), il ricorso alla guerra, alle leggi liberticide e ai tribunali militarizzati, unico il comando dei governi e degli uomini di classe che lo amministrano, altro non sono che scelte pratiche e storicamente determinate, funzionali al mantenimento del suo potere unico, unificato e senza opposizione. La sua logica allora non è diversa da quella che ieri prevedeva la divisione dei poteri. Ieri la lotta per la divisione dei poteri, oggi quella del comando e del controllo unificati. Solo vertice, e poco importa se si chiama “G8”. Dominio e controllo panottico e asimmetrico sono estesi a banda larga. La vigilanza, rinforzata con satelliti e scannerizzazione dei tratti psicosomatici dei soggetti, specie se sospetti di terrorismo e personalità anomali, ha la faccia della carta d’identità genetica “alfanumerica” o dei tratti e caratteri già codificati a priori, si che l’intera fisicità e personalità degli individui risulta giudicata “amica” o “nemica”. Le impronte digitali hanno fatto il loro tempo, così come i braccialetti elettronici per i “galeotti” hanno sostituito le prigioni. Nessuna differenza tra il corpo e la prigione che hanno confezionato a misura d’uomo standardizzato.

Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio. Gli individui che compongono la classe dominante posseg­gono fra l’altro anche la coscienza, e quindi pensano; in quanto dominano come classe e determinano l’intero ambito di un’epoca storica, è evidente che essi lo fanno in tutta la loro estensione, e quindi fra l’altro dominano anche come pensanti, come produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo; è dunque evidente che le loro idee sono le idee domi­nanti dell’epoca. Per esempio: in un periodo e in un paese in cui potere monarchico, aristocrazia e borghesia lottano per il potere, il quale quindi è diviso, appare come idea dominante la dottrina della divisione dei poteri, dottrina che allora viene enunciata come « legge eterna ».[15]
Se oggi la presa del palazzo non è più ritenuta necessaria per la pratica di una possibile vita democratica plurale, multiculturale e di giustizia sociale che suffraghi la libertà, la fraternità e l’uguaglianza con il sostegno della sicurezza nella solidarietà e il rispetto della diversità, non è un caso che il potere svuoti di senso la classica separazione dei poteri e suoi stessi organismi rappresentativi unificandosi nello Stato poliziotto e “unico” che militarizza lo spazio e il tempo. Se si riduce tutto all’esecutivo e all’amministrazione unificata transnazionale di chi ha in mano le forze economiche e il potenziale di forza funzionali al mantenimento del modello elettronico del capitalismo liberistico – che nell’età della globalizzazione telematica lancia l’universalismo e la velocità della potenza d’intervento immediato del proprio razionalismo tecno-elettro-telematico e del proprio diritto positivo cosmopolita, unitamente all’universalismo religioso e all’uso delle “armi intelligenti” – non è un caso che la produzione e lo smercio del software gode delle leggi sacre della proprietà santificata ancora una volta e della protezione dei provvedimenti speciali anticrimine.
Nessuna contrapposizione di sistema sembra credibile. E non è un caso neanche il fatto che il linguaggio dei media, gestiti soprattutto dalle lobby che hanno identificato il pubblico e comunitario con il privato e il suo diritto positivo, veicola le idee messe in circolo ad hoc. Gli stessi gruppi di potere, che quel potere non vogliono perdere o diminuire ma conservare ed estendere, onde preservarsi ciò che chiamano “stile di vita” civile e democratico, giornalmente infatti producono dibattiti, comunicazioni e performances facendo credere che è l’unica misura civile e universale per realizzare il loro “liberalismo umano” o l’unica idea di “uomo” ideale che commerciano quale razionale naturalizzato.
Così pensano che la semantica del loro linguaggio sia la realtà vera e gli eventi che dice, il bene e il male, il vero e il falso, i piaceri e i dispiaceri; sciacquando il linguaggio di guerra tout court, e terrorista, come un linguaggio “pacifista” di mercato – azioni di polizia internazionale, misure di prevenzione e sviluppo, spedizioni punitive, abbattimento del male, difesa dei trattati internazionali, liberismo come risorsa per combattere la fame e la povertà, piantare esportando la “civiltà” – credono anche di poter sterilizzare l’ambiguità linguistica e omologare i “significati” per impedire la crescita di qualsiasi forma di resistenza antagonista, pur essa ironica o parodica.
Ma il linguaggio non perde ambiguità e distanza critica nonostante, nell’era della comunicazione come forza produttiva, sia diventato luogo di vero e proprio schieramento d’armate tecno-mediatiche con effetti di sbiadimento della consistenza delle determinazioni contrarie e della decidibilità fra gli opposti in quanto il politico si è spostato nel “tra” , nel virtuale e nel bordo della frontiera.
J. Derrida, ricordando la rara capacità, in linea generale, di Marx di cogliere “l’indissociabilità originaria della tecnica e del linguaggio, quindi della tele-tecnica (poiché ogni linguaggio è una tele-tecnica)”[16], infatti sottolinea che la “frontiera capitale si sposta perché il medium nel quale si istituisce, ovvero il medium dei media stessi (l’informazione, la stampa, la tele-comunicazione, la tecno-tele-discorsività, la tecno-tele-iconicità, quel che assicura e determina in generale l’espacement dello spazio pubblico, la possibilità stessa della res pubblica e la fenomenicità del politico), un tale elemento non è né vivo né morto, né presente né assente: esso spettralizza. Non rientra in un’ontologia, in un discorso sull’essere dell’ente o sull’essenza della vita e della morte”.[17]
Ma attraversato com’è sempre dalle stesse relazioni dei bisogni e degli interessi sociali storici che lo pongono in essere, il linguaggio, sebbene delocalizzato in rete e usurate le vecchie forme di referenza dello Stato moderno, non può nascondere tout court ciò che è determinazione storico-materiale di rapporti intersoggettivi, simmetrici o asimmetrici, di potere, di forza e di proiezioni in atto. Il linguaggio, anti­co quanto la coscienza, “è la coscienza reale, pra­tica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini. Là dove un rapporto esiste, esso esiste per me; l’ani­male non «ha rapporti» con alcunché e non ha affatto rapporti. Per l’animale, i suoi rapporti con altri non esistono come rapporti. La coscienza è dunque fin dall’inizio un prodotto sociale e tale resta fin tanto che in genere esistono uomini”.[18]
E se il linguaggio è rapporto, relazione sociale e storica, come il pharmacon che al tempo è veleno e beneficio, non può avere una sola valenza, quella della sintassi capitalistica. Così nella coscienza politica della classe egemone, la pace (nel loro linguaggio) significa guerra agli altri, benessere fame per gli altri, libertà servitù per gli altri, ricchezza miseria per gli altri, vita morte per gli altri. La classe degli oppressi, operai o tele-operai, soggetti delle povertà vecchie e nuove non possono non nutrire una “sano odio di classe” se il loro corpo patisce la diminuzione o la sottrazione del piacere “perfetto”, l’utile dell’essere vitale, e per effetto di una “causa esterna”, come filosoficamente dice Spinoza, e Marx ribadisce “storicamente”. Odiare è la passione attiva del voler rimuovere ciò che impedisce la “letizia”, e il piacere perfetto della vita non è delitto o crimine imputabile da chi la vita riduce a merce; chi divide, ri-produce con scienza positiva e tecnica applicata la ‘potenza’ dell’attività sensibile e lavorativa del general intellectus individuale e collettivo, per impiegare il suo valore d’uso al valore di scambio del mercato e del profitto privato, per riprodursi come classe egemone, sfruttatrice e omologante, non ha titoli per apostrofare eticamente il sentimento dell’odio come un istigare vs l’avversario in senso di “criminoso” e “terroristico” odio in senso politico quando, invece, è tutta una scena ideologica, per destino funzionale alla conservazione del proprio potere di classe, giocata nel linguaggio. Dopo le analisi di Marx, i rapporti tra ideologia e linguaggio non sono che storia irrinunciabile. Qui ci preme ricordare, e solo per richiamare alla mente solo due fra i più noti, Ferruccio Rossi-Landi ed Edoardo Sanguineti che all’ideologia e al linguaggio hanno dedicato libri (Sanguineti) e ricerca scientifico-tematica (Rossi-Landi).
Nel nostro paese lo scenario è visto anche dai ciechi. La logica alienata del linguaggio e del controllo totalizzante rulla giornalmente con le grottesche performances comunicative, per esempio, dei tanti cavalieri Berlusconi, il “comunista” capitalista che utilizza il linguaggio come arma di attacco, sabotaggio e fuggi; l’uomo anticomunista, il più colonizzato dell’americanismo militarizzato, e non solo se si pensa ai converti dell’ultima ora provenienti dai partiti socialisti e comunisti di ieri, l’imprenditore del mercato più sfrenato, della de-regulation dello stesso Stato liberal-rappresentativo, che ciancia dell’uomo e della sua libertà solo nella libertà senza freni del mercato neoliberista.
In questo contesto la mente e la coscienza della classe che “odia” il capitalismo e i capitalisti è “conatus” diretto a “letizia” spinoziana, che, rimosse le cause storiche che ne hanno determinato la costrazione, ora immagina e opera per escludere l’esistenza di quelle cose che il “corpo” ha in odio in quanto ne limitano il piacere e la conservazione di essere se stessi come ‘potenza’ totale e integra. L’odio di classe quindi non solo è sano ma è da conservare fino a quando il corpo sociale che ne causa la “passione” non è rimosso, e la letizia, l’aumento e la perfezione d’essere, il piacere della vita, non vanno in opera, e ognuno se ne “allieterà” cooperando nell’azione comune.
Anche il vecchio Hegel diceva che senza passione e cooperazione di coloro che vogliono qualcosa “nulla di grande” si può realizzare. E la verità è sempre una questione di pratica e mai di teoria o soggettivismo.
E l’aumento del piacere del proprio essere singolare-collettivo non può non proporsi, quindi, anche come linguaggio “macchina da guerra” critica radicale e nei termini del conflitto e dell’antagonismo (aggiornato secondo le nuove forme dettate dalle mutate condizioni storico-materiali) contro le verità del regime del linguaggio, e il reale del suo “pensiero unico”. L’“Unico”, di rinnovata memoria stirneriana, che chierici politici post-moderni e liberisti marketing, muniti delle opinioni della loro “trasparenza” proprietaria e santa, paventano la “congiura” mondiale di Al Qaeda.
Ieri, nella vecchia Europa di papà Cavour, unitasi nella “santa alleanza” del papa, dello zar, dei re e Metternich, era lo spettro del comunismo ad essere paventato come il pericolo rosso da scongiurare.
Ma se il mondo “migliore possibile”, il profitto in libero mercato, il mondo delle rimozioni e delle dematerializzazioni politiche del postmoderno, apologetiche della santità della “proprietà” e delle identità elettronico-codificate, non è il mondo di tutti e per tutti, ma quello dei capitalisti, del profitto e del crimine giustificato e legittimato sotto ogni profilo, allora questo è il vero pericolo da aborrire ed odiare. E odiarlo non è male. Non c’è credibilità che ne faccia reato d’opinione perseguibile né per tribunali né per anatemi. La classe dei soggetti (l’oppressa, povera, impoverita e repressa a livello globale), il cui “corpo” odia quello della classe che gli diminuisce il piacere della potenza d’essere o la depriva persino della “nuda vita” e del ben-essere dovuto, non può certo brindare alla “letizia” degli oppressori e sfruttatori.
In un mondo di classe e del controllo totalizzante, solo la rimozione del conflitto e dell’antagonismo della coscienza di classe oppositiva è criticabile e ripugnabile; nessuna rimozione di tale genere, del resto, garantisce/assicura le differenze, il pluralismo, la “letizia” degli oppressi e sfruttati o emarginati e dannati.
Letizia, nel tragitto, è intanto e invece, richiamando Edoardo Sanguineti, “ tenere vivo il concetto di un sano odio di classe, che (e persino i dizionari lo hanno già registrato) non ha niente a che fare con l'avversione personale (condannabilissima), ma vale solo come lucida coscienza di non essere dei privilegiati, chiara consapevolezza di appartenere alla categoria dei laboratores di medievale memoria, e si potrebbe andare ben oltre indietro (la gerarchia sociale degli oppressi non cambia)”[19].
Non è in discussione solo il “benessere” della mente dei soggetti singoli, l’esser-ci collettivo stesso o del suo essere polis linguistico e politico e zoon (animale) differenziato è minacciato.
Ora e qui, utilizzare il linguaggio come “macchina da guerra” o “odio di classe” conflittuale, e antagonista, è una lotta di resistenza e di attacco finalizzata alla rimozione delle “cause esterne” dell’infelicità; è smobilitare le mistificazioni e i “punti ciechi”, sputtanare gli autori di classe del “delitto perfetto” che sotterra le offese patite e ancora prodotte; è detronizzarne, per intanto, l’universalizzazione mediatica complice della propaganda che del “tempo fuori sesto” – come direbbe Shakespeare – diffonde solo paura, terrore e disperazione senza possibilità di salvezza alcuna che non sia l’integrazione acquiescente cui costantemente la comunicazione egemone lavora. Non è un caso che l’altra guerra, i “signori della guerra” e della guerra di classe capitalistica, la conducono sul versante dell’appropriazione esclusiva dell’informazione e dei suoi laboratori (diventati fra l’altro materia di produzione e trasformazione di servizi-merce, oltre a mantenere anche il vecchio ruolo di formazione delle coscienze); qui la logica dell’eliminazione degli avversari e dei ribelli, offesi dall’iniquità palese e produttiva del sistema, lavora a pieno regime per reprimerne e censurare l’espressione.
In un mondo in cui l’omogeneità linguistico-simbolica della rappresentazione di classe dominante, che tuttavia strumentalizza il rispetto della molteplicità del “diverso”, ha quasi soppresso anche teoricamente la realtà effettiva degli oppressi e degli sfruttati (bit/tele-operai, teleutenti, oggi), identificandola con quella del proprio reale virtualizzato e astrattamente misurato dal tempo assoluto della produttività capitalistica, non sarà certo il bombardamento dell’invenzione forzata e “congiurata” dell’antiterrorismo a favorire l’affievolirsi della lotta di classe e dei suoi sentimenti antagonisti. In quel mondo non c’è eguale possibilità per tutti, e gli esclusi/eliminati (umanità superflua e danni collaterali) o dannati della terra non possono avere diritti promessi e di fatto negati o amministrati con proprietà di dominio e controllo capitalistico; non possono non agire e parlare senza la “letizia”, la “virtù” e la “fortuna” del divenire comunista e allontanare l’odio di marca dell’usum delphini.
[1] Marx- Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1975, cit., p. 275
[2] Ivi, pp.275-76.


















Note

1 Marx- Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 275
[2] Marx- Engels, L’ideologia tedesca, cit. p. 162.[3] Ibidem.[4] Marx- Engels, Manifesto del partito comunista, Newton & Compton Editori, Roma 2005, pp. 48-9.[5] Jürgen Habermas, Dialogo su Dio e il Mondo, in Tempo di passaggi, Feltrinelli, Milano 2004, p. 129.[6] Ivi, pp. 132-33.[7] Bento De Spinosa, Etica, cit., pp. 195-96.[8] Marx- Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 124.[9] Ibidem.[10] Ivi, p. 125.[11] Marx- Engels, Manifesto del partito comunista, cit.,p. 47.[12] Marx- Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 111.[13] Ivi, pp. 114-16.[14] Marx- Engels, Manifesto del partito comunista, p. 47.[15] Marx- Engels, L’ideologia tedesca, cit., pp. 35-6.[16] Jacques Derida, Spettri di Marx, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994, p. 71.[17] Ivi, pp. 68-69.[18] Marx- Engels, L’ideologia tedesca, cit, p. 20.[19] Edoardo Sanguineti , La vera non violenza è l’odio di classe, in Pensée in libertà vigilata, http://www.nadiacavalera.blogspot.com/ (24 gennaio 2007)


[1] Bento De Spinosa, Etica, Boringhieri, Torino 1967: Proposizione 11, Scolio- “Intenderò dunque per letizia, in seguito, la passione per la quale la mente passa a una maggiore perfezione; per tristezza invece, la passione per la quale essa passa a una perfezione minore.[…]”, p 143; Proposizione 13 - “Quando la mente immagina cose che diminuiscono o impediscono la potenza d’agire del corpo, si sforza, per quanto può, di ricordare le cose che ne escludono l’esistenza. […] Vale a dire l’amore non è niente altro che la letizia accompagnata dall’idea di una causa esterna; e l’odio niente altro che la tristezza accompagnata dall’idea di una causa esterna. Vediamo poi che chi ama necessariamente si sforza di avere pre­sente e di conservare la cosa che ama; e che, al contra­rio, chi odia si sforza di allontanare e distruggere la cosa che odia. […]”, p. 145; Proposizione 20- “Chi immagina che venga distrutto ciò che odia, si rallegrerà. Dimostrazione. La mente […] si sforza di immaginare ciò che esclude l’esistenza di quelle cose, da cui la potenza d’agire del corpo viene diminuita o impedita; cioè […] si sforza di immaginare ciò che esclude l’esistenza di quelle cose che odia; e perciò l’immagine della cosa che esclude l’esistenza di ciò che la mente odia, aiuta questo sforzo della mente, ossia […] modifica la mente mediante letizia. Chi dunque immagina che venga distrutto ciò che odia, si rallegrerà. C.d.d.”, pp. 151-2.
[2] Marx- Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1975, cit., p. 275
[3] Ivi, pp.275-76.















































































mercoledì 2 maggio 2007

Tra le soglie del con-fine di Apollo


di Antonino Contiliano

Una nota o due parole per un libro di poesie, www.lulu.com (2006) – Ai confini di Apollo (che suona la lira sullo sfondo blu) – di Pietro Li Causi.
Dissacrazione epigrammatica, leggendo i tuoi testi, forse sarebbe dire meglio un unico testo, che articola gli eventi in cui l’allegra brigata (Boccaccio ?) , rotta e scanzonata, naviga fra i due estremi territoriali di alcuni luoghi del pianeta vita o il tempo di alcuni dei suoi “animali” umani: la “terra” – Marsala, Strasatti, Petrosino o Palermo… – e Apollo o Sirio (abitat mitico-astronomico ma anche, e forse, allegoria elegiaco-demistificante i viaggi della “lira” di Apollo rivista con le note dello sballo contemporaneo dell’ “erba” o della musica o del fantasticare con oralità fortemente espressiva siculo-baroccheggiante: “«Comu finiu cu dda rrussa?» /- gli chiese - /«Comu fu zzaccagnari /cu idda?» /«Zittuti ‘Ntria», rispose Melo,/«m’‘a vulia tagghiari!»:” ), è ciò che mi si è coagulato nel cervello, come un embolo tumorale o metastasi in circolo, seguendo la costruzione po(i)etica di Ai confini di Apollo (non di rado questo “tra” d’erranza mi ha richiamato il viaggio – lo stretto – di “Scill’e Cariddi” di H. O.):

Floriana piange. È sola.
Guarda in TV le riprese
di un documentario che pare
molto impegnato, ma in fondo, a lei,
non gliene fotte un cazzo
delle biodiversità:

La dissacrazione – cosa che mi è piaciuta assai come estraniazione di un io poetico che auto-etero-ironico (lontano, anzi lontanissimo, dal lamento consolatorio di tante lirico poetume – analizza e racconta. Scrivi anche attraverso il punteggiare (articolazione dei testi che frammentano una “storia”, e anche punteggiare nel senso quasi tecnico-grammaticale), come tua personalissima cifra scritturale, che conserva perfettamente sia l’attualizzazione di qualche intertestualità, possibile, attivamente ricreata (penso agli inserti ‘dialettali’ e a ‘Ndria di D’Arrigo di H.O.) sia la polisemia (cosa che mi è piuttosto cara, e vs l’appiattimento omologante di certa lingua di spot, acritica). Affidata alla stessa “punteggiatura” della reticenza o dell’allusione (i punti di…), questa è anche libertà data al lettore d’integrazione interpretativa e intreccio; testualità e livello di versi che accanto alle “spiegazioni” – ogni tuo testo (quasi un gioco di matriosche) è chiuso/aperto dai due “punti” – si offre come ulteriore inizio di un’altra vicenda che va a capo. Una scrittura che ritarda la morte o la fine della scrittura: le novelle di Boccaccio o di Mille e una notte…Non credo di allontanarmi troppo. Gli spazi di rimando, credo, abitano anche le “parentesi” e le “virgolette” dei tuoi testi; e sono anche l’invito a giocar con l’ambiguità che s’impossessa del contenuto semantico ivi racchiuso.

“zzaccagnari” non è solo dialetto (lingua) come “mi sono fatta Susanna” non è, credo, solo parlata d’uso: è espressività logo-sensuale, e mi ricorda, così, d’acchitto, il sentito erotico di certo vocabolario “darrighiano” come codice della sessualità occultato-rivelato (ellitticamente) e pro-dotta con stilemi “triviali” e sarcastici. Ma nel tuo caso, credo, l’osceno o l’humour espressivo linguistico è carico ironico smitizzante:

la rossa lo guarda
e ribatte «finiscila
di cuntari minchiati!»
… ‘u voi fattu ‘n pompino?»: (p. 58)
…….
«A letto con lei sarei stato un mago!»
pensò Sirio fissando
la punta dell’ago: (p. 66).

Ritmo e sonorità, tutt’altro che ‘artificio’ artistico di contorno, nel contesto della tua semiosfera (Lotmann) sono testualità segnica semantizzante di organica complementarietà.