giovedì 25 novembre 2010

L’esercizio poetico di Antonino Contiliano

di Maria Patrizia Allotta


“Proprio nel mese in cui ha inizio la primavera dell’anno detto 2010 riceviamo da Antonino Contiliano un nuovo dono intitolato Ero(S)Diade / La binaria dell’asiento dove è possibile cogliere, ancora una volta, la delicatezza di un’anima che instancabilmente canta e invoca e la sensibilità di un spirito che inevitabilmente entusiasma e appassiona.
Anche in questa raccolta, come sempre, dietro quella trascinante “follia” dettata dai bizzarri sentieri lessicologici e grammaticali percorsi magistralmente dal nostro autore siciliano, ci è dato scorgere la via della “sapienza” che intimamente gli appartiene tanto da distinguerlo dai più e dai dormienti, così come pure ci è dato riconoscere l’audace trasgressione linguistica e letteraria la quale comunque, quasi misteriosamente, riconduce ogni possibile lettore al mito e alla tradizione, al valore di ogni orma fonica e al senso di ogni possibile segno verbale ma soprattutto all’importanza della scrittura e al segreto della parola liberante.
Opera, quella di Contiliano, dove la scienza si intreccia con la filosofia, l’immanenza si intesse con la trascendenza, il sacro organizza il profano, la ragione dipende dall’alterazione, la mente si unisce al corpo, l’indignazione genera l’amore, il divino si fonde col bello.
In molti versi, poi, il tempo, pare oltre che “spaginato” anche sospeso, ostruito ma straordinariamente infinito, lo spazio sbarrato, vincolato ma inspiegabilmente illimitato, il Cosmo devastato, offeso, pure sfigurato ma piacevolmente indeterminabile, l’uomo deriso, vilipeso, martoriato eppure intimamente amato.
Suoni, percosse e vessilli si alternano a silenzi, carezze e sogni.
Una eterna Diade, insomma, che bene si muove, tra teoria e prassi, sistema e azione, ideologia e impegno, tradizione ed innovazione insieme.
E certamente sono “i deliri silenziosi dei corpi al vento”, le “fusioni e dispersioni d’orrori”, l’ “infinito massacro dei poveri”, l’estenuante “battito dei morti”, ma anche le troppe “zattere alla deriva”, l’insopportabile “fame flessibile”, “i vestiti precari e cari” o l’offensivo “rosso mare di sangue” che lo portano a gridare con forza come “non è più tempo di chiedere esigere è tempo” perché “un altro mondo possibile è”; così come pure è il “macello ininterrotto”, “la libertà che langue”, “una chiesa così e così sia” e ancora “l’amore in affitto…, la giustizia a frittelle e i tribunali a panelleeeee”, ma anche “il giro di bordelli e una vita da brandelli”, il “lavoro precario, mangio saltuario mi innamoro a orario” che lo fanno sentire “così accosciato così dissociato così sospeso così sorpreso” ma anche “così “flessibile come un fusibile”.
Appare un monito il suo dettato lirico, una esortazione il suo impegno profetico, un esempio la sua nobiltà, soprattutto quando, forse esausto ma non rassegnato, piegato ma combattente, intrepidamente proferisce ancora di quella “coscienza che flotta nel deserto”, di quelle “pieghe che non spieghi” e di quella “vita per tutti non è di tutti”.
Ed è bello pensare che quel vecchio sempre giovane che già “si era perso nello sguardo” possa rimanere convinto che “il tempo non suona due volte, mai la stessa canzone di vento e cielo” e che “dentro non si muore una volta sola” così da poter entusiasticamente cogliere e poi cantare “il profumo fra le rovine”, “il vulcano delle delizie alla marea” e il “delirio in amore” … che incanta.
Rabbia e collera nelle sue parole, esercizio entronautico e spirituale nei suoi versi, sofferto amore e pace del sogno del lucido delirio nella sua filosofia”.

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