martedì 5 giugno 2007

Liturgia dei miserabili, il cortometraggio di Rino Marino

I fantasmi della luna e l’immagine-azione
(Liturgia dei miserabili)

di Antonino Contiliano



Non è il sonno della ragione che genera mostri,
bensì la razionalità vigile e insonne.
G. Deleuze.
La razionalità è solo irrazionalità imbrigliata.
Bas C. van Foester



Jean Luc Godard affermava “non un’immagine giusta, giusto un’im­magine”. Gilles Deleuze rispondeva “ non un concetto giusto, giusto un concetto”. L’uno parlava di cinema, l’altro di filosofia, ma anche di filosofia e pensiero del cinema, dell’essere del suo divenire ‘immagine’ o ‘concetto’. Li accomuna il volerne cogliere il ritmo di processo ed evento singolare della fenomenologia esistenziale delle cose nella contingenza e nella circostanza del loro accadere.
E credo che il binomio – “giusto un’im­magine” e “giusto un concetto” – sia appropriato per riferirsi al cortometraggio Liturgia dei miserabili di Rino Marino.
I miserabili di questa liturgia cinematografica, che ci racconta la consuetudine rituale e ripetitiva degli atti e dei comportamenti – quasi un riparo dall’angoscia dei conflitti esterni – d’essere del divenire alienati, miserabili sociali che dall’erranza sulla nave dei folli nel medioevo sono passati ai manicomi moderni e alla disciplina medica e microfisica del potere (M. Foucault), sono i folli dell’alienazione psicotica o schizofrenica che qui assurgono a narrazione di tragica visività filmica. Sono i soggetti “schizofrenici” che, appunto, per una quasi forma di cecità hanno perso il contatto con la realtà del quotidiano condiviso e del senso comune (quello cioè solamente dello scambio concettualizzato, e unica comunicazione intersoggettiva di verità pubblicamente riconosciuta), ma che non hanno perso il senso dell’esistenza e della sua ricerca ossessiva pur, come ci dice il deposito della migliore letteratura mondiale, nella forma reificata di fantasmi spettralizzati.
Il loro senso delle cose e della ricerca come erranza ed esilio è infatti dentro un universo di discorso non comune o legato al loro ‘interpretante’ (J.Peirce), ovvero a un insieme di significati con cui ognuno di noi filtra le cose, le distanzia e le mostra pubblicamente come segno di senso singolare e concreto. Qui immagini e concetti non hanno il significato tradizionale e consueto del modello rappresentativo accreditato nei processi dell’astrazione. Non sono cioè ‘rappresentazione’ o “simbolo”, schemi trascendentali che rimandano a qualcosa che simbolo o rappresentazione non sono se non nel senso semiotico di essere presenza non scissa dei due termini della relazione coinvolti nel processo ‘immagine-azione’ del divenire e concetti concreti di qualcosa. Ed ecco perché, per dire due parole su Liturgia dei miserabili di Rino Marino, è opportuno richiamare Godard e Deleuze.
Deleuze è il pensatore (è stato anche il filosofo del cinema) che ha elevato le immagini e i concetti a uno statuto tale per cui, come accade nel cinema d’arte e di pensiero, immagini e concetti non sono altro da quello che è l’essere del loro divenire – l’essere tra, processo tra due punti, arresto, blocco, linea di fuga, deterritorializzazione e mai passaggio da un’identità ad un’altra –: divenire vegetale, per esempio, o lupo. L’ululato del lupo nella notte e alla luna, il correlato vibrare del vecchio pescatore di Liturgia dei miserabili che, prima delirante e poi assorto, smozzicando e ripetendo “asciucà lu mari”, si trascina e si lascia andare – mor-ire – nel cono di luce del mare della luna. E il pescatore che, altra analogica allegoria allusa, rinchiuso nella sua stessa prigionia di mente s-viata, come il lupo, sente il richiamo dell’assenza, presente, di un mondo e di un deserto, diversamente significanti, che lo brucia, e la cui voce come una risonanza si innalza fino alla luna e nella notte che accentua gli spessori di ogni cosa e di ogni sentire che sia ferito. E la voce del lupo e la voce del marinaio sono entrambi votati, nella notte, alla luna dove un Orlando cercava il suo senno.
Rino Marino, il regista di Liturgia dei miserabili, è castelvetranese, psichiatra, poeta, attore e scrittore di teatro, e tra i suoi testi migliori, che ha visto anche una riduzione teatrale, qualche anno fa, c’è appunto La nave dei folli la cui vicenda ed esistenza ora ci presentata elaborata con lo statuto particolare delle immagini del cinema e del loro essere simbolico particolare come ‘cinema’ corporeo (per trasferire ai fotogrammi montati di Liturgia dei miserabili ciò che del “simbolo” ha riscritto Carlo Sini in il suo L’uomo e il simbolo).
Come i geroglifici egiziani, le immagini degli alienati mentali di Liturgia dei miserabili sono il simbolo corposo e sensibile dei concetti esperenziali che i folli hanno del loro rapporto con il mondo; sono i segni che danno a vedere (esteriorizzati) agli altri mentre, senza residuo e rimando a chi sa che cosa di strano o ineffabile, li vivono con voce di senso; mentre li gestualizzano e li distanziano da sé, dalla propria interiorità, per renderne “pubblica” l’intenzionalità di senso e significati che li muove e li anima come prassi corporea. Per vivere e morire come immagine concettuale e comunicabile. Rino Marino lo di-mostra con la poesia della sua Liturgia dei miserabili.
Nel cinema l’immagine infatti non è una rappresentazione che rimanda ad altro, ma dice se stessa, così come il concetto, più che figlio di una catena assiomatica-deduttiva, è la contrazione d’intensità di una con-tingenza che si raggruma. Anche il concetto, scrive Deleuze, non è un’idea generale e astratta o concetto rappresentativo di essenze immobili; è com-prensione – percetto (Deleuze) – di un evento nella circostanza di quell’accadere che afferma l’essere del divenire un qualcosa. “Il concetto come essere, come bestia”, il divenire minerale, inorganico, don­na, ecc.; è sempre un gioco tra due termini senza coincidere con nessuno di essi. Una linea di fuga che de-territorializza l’identità senza bloccarla in uno dei due poli o farlo transitare dall’uno all’altro. “Il divenire animale dell'uo­mo è reale, benché non sia reale l'animale che egli diviene”.
Così ne La liturgia dei miserabili l’ululato del lupo alla notte è il vecchio pescatore divenuto folle – ripetiamo. Il pescatore che, dopo il suo viaggio sgembo (ritmato dall’ossessiva ripetizione “asciucà lu mari”, angoscia spossessante, qualche sosta all’edicola votiva e il riposo ai fianchi della barca (isotopia della nave dei folli, e dismessa) dismessa e a secco sulla riva, e al cui riparo per l’ultima volta ripete come un’auto ninna nanna “asciucà lu mari. Terra sicca, spini e furmento abbruciatu”), si alza e s’immerge nel cono di mare illuminato dalla luna. È il pescatore alienato che è preso nel divenire animale senza diventare lupo (così come il lupo non diventa uomo) quando si muove di notte fra gli alberi e il verde di una sentiero che attraversa per portarsi in riva al mare e lì scomparire fuso con la luce liquida e accogliente.
Ma entrambi, direbbe Benjamin (altro filosofo che per primo, nell’epoca della riproducibilità tecnica, al cinema riconobbe dignità poetica e funzione democratica) vivono l’allegoria delle tracce e delle rovine. Il mondo delle fratture e dei resti dove l’allegoria moderna, non più legata alla trascendenza e alla metafisica, cerca di montare, quasi una ricomposizione dell’infranto, per costruire e fissare un senso. Non è un caso che l’ambiente in cui, fissi nell’occhio e nell’idea dominante e irremovibile, vivono, girano si muovono i personaggi di Rino Marino, gli alienati mentali in rovina, in un mondo di rovine; i soggetti altri capaci più di altri di dar corpo a dei fantasmi a cifre di immobilità. L’immobilità dell’idea fissa che imprigiona la mente del personaggio e si proietta anche come fissità del paesaggio e dell’ambiente. Quasi un “paesaggio moralizzato” che rende superfluo il ricorso ai rapporti di somiglianza per spiegare, per dire con i caratteri del mondo e delle cose la temporalità immobile dell’anima straniata del folle che vive nell’intemporalità di un presente che si ripete: il presente dell’eterno ritorno della donna, del barone o del vecchio assorto e spaesato/spaesante del cortometraggio del regista Rino Marino.
Una temporalità, in questa Liturgia dei miserabili, qual è quella che attraversa e picchia la mente del folle, mo(n)strata dalla monotonia cadenzata del bianco e del nero e la sua scala di grigio, dei gesti, dei toni di voce, della musica, del canto dei grilli e delle cavallette, del gesto del vento che muove appena le foglie degli alberi o delle canne per connotarci una scena che rimane invariata, dipinta di immobile, maniacale, monotonia.
La stessa monotonia, fissità, immobilità d’essere, delle ruote della piccola carretta dell’omino, del ticchettio di una goccia d’acqua nel secchio all’interno di un diruto, della rigidità di una casa diroccata, devastata da un terremoto e con cinque occhi-finestre spalancati sul vuoto (l’orrore di una mancanza o di un’assenza), di una donna allucinata, come altri personaggi del film, che culla e nenia un pupazzo – il divenire bambino (maternità mancata) –, un Antonino, portato per mano da un bambino – il divenire aquilone –, un vecchio poeta, surrealisticamente seduto in mezzo alle rocce e alle rovine che, contattato dall’omino del carretto in cerca di un fiammifero per spegnere il giorno e trovare l’aquilone di Antonino, come una vecchia incisione canora registrata e addormentata, ora si risveglia e fa sentire la sua voce di anima assente e straniata che sa “…la pena del viandante e il suo canto smozzicato” o del barone e del suo cameriere che festeggiano ogni compleanno senza invitati, sempre.
E su questo mondo di rovine, profondamente reso dal bianco e nero del film, c’è pure un’orchestra di suoni e voli. Baudelaire direbbe una foresta di simboli: corpi, volti, segni e lingua poetica plurale, mistilinguismo di siciliano e italiano sicilianizzato, segnali e atmosfere di lunari cristallizzazioni, angoli oscuri, rimossi e/o di solito ignorati, anfratti in chiaroscuro assorbente.
C’è una colonna sonora artificiale che è solo una parte e complementare, perché silenzi assordanti e solitudini risonanti pulsano insieme frequenze di identità in dormiveglia con i segnali più svariati nascosti/mostrati e impressi nel ritmo delle cose catturate dalle inquadrature. Non c’è solo la ricerca dell’aquilone di Antonio (altra allegoria e allusa che rimanda al volo del gabbiano, il vecchio del mare caro alla memoria di Baudelaire), anche l’allegorico rimando ad altre ali, che nel tempo delle macerie si elevano in alto per la ricerca di un senso da comporre e seguire, richiamano l’affinità con l’assetto del decollo di un altro messaggero, e non comune, che spia gli indizi del tempo nel paesaggio che si trasforma.
È il volo dell’Angelo della storia di Walter Benjamin – l’allegoria dell’immagine-rimando, dell’Angelo di Paul Klee – che si leva e si porta per essere lì dove la distruzione è “più vicino del consueto alla creazione, ma non ancora abbastanza” (Paul Klee) e tentare un montaggio di pratica significante . Nel montaggio della storia della liturgia dei miserabili di Rino Marino, è lo stesso del come vola l’aquilone di Antonino, il cigolio delle ruote della carretta, il suono dello sgocciolare della goccia d’acqua nel secchio, l’urlo silenzioso delle finestre spalancate della casa diruta (imponente e sinistra), la monotonia delle nenie della donna, il delirio bruciante del pescatore, il canto surreale del poeta tra le rovine, le battute enigmatiche del sacerdote del fuoco sacro e del riso ebete e saputo del sacrestano, l’andare sospeso e il coro salmodiante dei pellegrini che si avvicinano all’altare e poi al rito finale della capra scannata e macellata, sacri-ficata, e del gesto “religioso”, accompagnato da una musica incalzante, del suo cuore sradicato in trionfo votivo (il ‘sacer’ del tragico, quasi un ritorno al sacrificio religioso antico) in parallelo (altra allegoria) con i fumi del turibolo della religione nostrana.
E in questo montaggio filmico che diagramma le rovine montando le/sulle rovine, e dove l’occhio della cinepresa ha bloccato il poetico e l’umano degli attimi di vita, d’esistenza “miserabile” e di ricerca di senso dei folli, si incontra e ammira anche il montaggio della visività narrativa e dell’articolazione scelta e orchestrata che ne fa il regista Marino. E, secondo noi, è un montaggio che orientata con lo spessore del suo bianco e nero sfumati (a volte come chiazze abbacinanti) e dei campi lunghi. Le forme che dicono della fusione del folle con l’ambiente e il ritmo del suo tempo, la dominanza dell’ambiente e del paesaggio sull’individuo. In particolare sull’alienato mentale. L’individuo viene da un fondo scuro e viene assorbito in un orizzonte che lo inghiotte. Anche il “dettaglio”, la panoramica e la carrellata o gli altri tagli di campo, piani e ritmi interni dell’inquadratura filmica, nella successione narrativa scelta dal regista, denotano questo discorso di fondo delle realtà vissuta e pensata dai folli, senza che per questo il vissuto degli stessi perda di valore e amore. Il regista-poeta Marino, combinando tra tagli diretti e indiretti o il soggettivo e l’oggettivo (pasolinianamente detto “soggettiva libera indiretta”), ha conciliato, con ossimoricità artistica, il congelamento dell’occhio dell’obbiettivo della cinepresa – immagine di arresto e blocco, quasi una successione di fotogrammi piano-sequenza o immagine-azione che stagna istanti che si immobilizzano d’eternità – con la mobilità ricompositiva della coscienza del soggetto interpretante che cerca un senso non con un montaggio giusto, ma (come direbbero Godard e Deleuze) giusto un montaggio, giusta un’immagine, giusto un concetto per una breve sosta tra essere divenire “folli” e divenire “uomini” senza perdere l’umanità che è propria di ognuno, e in primis dei folli e diversi; e perché non ogni follia è una malattia mentale!, e perché la follia di questi miserabili non è meno degna di quella di alcuni grandi nomi.
Perché la follia, dall’Otello di Shakespeare, al Don Chisciotte di Cervantes, all’Orlando furioso di Artiosto, ecc., come quella dei miserabili di Rino Marino, non è una “malattia” se non che al di sotto di pochi gradi libertà nella discesa degli inferi, della notte e del sole completamente nero. Perché il solito dell’universo del loro discorso è quello della luce delle onde lunari, la luce della luna e della luce come effetto – direbbe il poeta Goethe – della notte e dell’ombra, quella più significata per chi sa dell’irrazionalità della razionalità pura che perde le passioni del tempo, della materia e del corpo come potenza.
Perché la Liturgia dei miserabili, il cortometraggio del regista castelvetranese, Rino Marino, psichiatra, poeta, scrittore di teatro, attore e anche regista, può essere guardato e s-guardato (non non veduto) solo se l’idea tematica fondante, il divenire-follia dei personaggi, trova la chiave del cinema di pensiero e di analisi in azione dissonante orientata al senso.
E non si può non segnalare la sintonia con altri artisti e figure che frantumano l’ufficialità del mercato estetizzante: C. Bene, P.P. Pasolini, C. G. Jung, C. Jaspers, M. Foucault, F. Basaglia, L. Binswanger, J. P. Sartre, E. Borgna, ecc. Tutti personaggi che riconoscono i limiti della psichiatria medico-farmocologica che ascrive la follia solo alle malattie oggettive della mente e metodologicamente trattabili in vista della guarigione e della sanità rassicuranti; pensatori e sperimentatori che, visto che altri saperi, conoscenze e pratiche, prima della psichiatria medica o della psicoanalisi positivizzata, hanno trattato il paradosso e la voragine della follia, ora, interdisciplinarmente, si rivolgono, a questi altri saperi e pratiche – letterarie, artistiche e poetiche – per avvicinarsi alla comunicazione con la follia e al senso del suo modo d’essere e divenire soggetto diverso.
Così che c’è anche un “prendersi cura” dei folli – ascoltarli, sentirli, relazionarvisi come soggetti di cui bisogna attenzionare seriamente l’universo simbolico-semiotico-ideologico che li media durante il loro cammino di vita, se è vero che ognuno è come tutti (non somiglia a nessuno). Ascoltarli attraverso la poesia, l’arte, il teatro e il cinema, e di cui il teatro e il cinema di cura che fa Rino Marino è testimonianza e prova conducente. Binswanger dice che ognuno di noi ha gli stessi complessi, solo che li organizza diversamente nell’ideologia di un linguaggio diverso.
Questo cortometraggio di Marino, per finire, richiama alla mente, per assonanza e continuità col mondo dei simboli, delle rovine e della potenza del corpo, anche i nomi di C. Bene, Pasolini, oltre che Benjamin e Deleuze.
Walter Benjamin (per il pensiero delle rovine, delle tracce e dell’allegoria), Carmelo Bene (per l’attenzione privilegiata data alle cianfrusaglie dei pezzenti, al corpo cadente delle chiese e delle case con le loro pareti e immagini scrostate, al paesaggio ebbro di sprazzi luce assorbita e rifrangente corporeità come ‘potenza’), Pier Paolo Pasolini (per motivi non lontani da questi e, forse, per la “pseudosoggettiva” che tanto richiama la “soggettiva libera indiretta” di Pasolini teorico, fra le altre cose, del cinema come lo stesso Deleuze). Deleuze è il popfilosofo che ha concettualizzato l’immagine-movimento, tempo, divenire, concetto, ecc.; e, insieme a F. Guattari, anche alla schizofrenia (non ultima quella di Mille piani), ha dedicato tanto della sua ricerca inquadrandola, come anche Foucault (Storia della follia e Storia della sessualità), nei rapporti storico materiali del mondo, cui certo anche Binswargen non è estraneo e meno convincente.
Partendo dal dasein – l’esser-ci, lo stare-con gli altri, il mondo, il mondo analizzato dalla fenomenologia di Husserl e dall’analitica esistenziale di M. Heidegger e J. P. Sartre – o dalle possibilità e dall’osservazione della condizione umana in generale e immesse nella dinamica storico-esperenziale di ciascuno, lo stesso Binswargen dice che il malato mentale si scopre che “soffre dei nostri stessi complessi, ma anche che si muove nelle nostre stesse prospettive storico-spaziali-temporali, anche se in maniera diversa”.
E chi fra noi potrebbe dire – per scelta o per codice simbolico tramandato, introiettato e tradito – di non essere portatore, attivo o passivo, di simboli emblematici e dell’intrecciata significanza e connotazione quali la luce lunare, i pleniluni sfocati sul paesaggio, il mare, la campagna, un campo d’alberi, le trazzere e i viottoli, i sentieri che si arrampicano tra le rovine di un terremoto, una casa diroccata, un’angoscia sfibrante fino a lasciarsi morire o a vegetare, le ruote (continuità del movimento-tempo) di un carretto trainato a mano, un secchio dentro cui una goccia d’acqua scandisce il suono della discontinuità-continua, la monotonia di una condizione fissa e intemporale che avvolge la vita alienata, l’apparire di una capra, un gatto, un cane, la barca all’asciutto e a pochi passi dal mare lasciata alla deriva dell’abbandono (la “nave dei folli), il frinire di cicale e cavallette, i pellegrini e un santuario con i suoi custodi del “ cuore” nascosto (il sacer del mondo della tragedia classica) della capra macellata e il fumo del turibolo che ritualizzano il corpo delle cose profonde e nascoste, la ‘X’ che si fa vedere ma non si apre e non si fa guardare dentro.
Ecco, allora: qui è il senso dell’arte e della poesia di Liturgia dei miserabili, la poesia che con il suo linguaggio mescolato (e non solo nel senso linguistico), diversamente dalla psichiatria medica, non cura una malattia della mente ma prende in cura la direzione e il senso di vita dei diversi, la singolarità che vuole volare o fondersi con la vita dell’universo e delle cose.

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