domenica 11 marzo 2007

La pluralità nel luogo-non-luogo dell'"Immaginario simbolico itinerante"

Self storico, identità e divenire collettivo:
i nicknames e l’ornitorinco



L'unica conoscenza che valga è quella che si alimenta di incertezza,
e il solo pensiero che vive è quello che si mantiene
alla temperatura della propria distruzione
E. Morin


La realtà immediata (concreta) del pensiero è la lingua […]
il problema di discendere dal mondo del pensiero nel mondo
reale si converte nel problema di discendere dalla lingua nella vita.
(K. Marx,

Parlare del sé/self come identità dell’Io, acquisita e conservata nella continuità del suo divenire attraverso le trasformazioni che il suo tempo storico, il tempus, comporta, piuttosto che solo il tempo d’ordine come pura successione cronologica, richiede un ambito di riflessione che tocca il variegato e dispiegato sapere maturato: dal mitico e religioso, al metaforico e al logico-scientifico-filosofico, non meno alle profondità della psiche (anima come insieme di attività) e del collettivo. La fenomenologia incontra pure l’arte, la letteratura e la poesia.
L’identità personale, distinta dalla mera identità individuale di specie, s’è riflessione come coscienza teorico-storica di sé e unicità differenziata pratica, appartiene ad un soggetto. E il soggetto, in quanto capacità di azioni conoscitive e pratiche contestuali, ha responsabilità morali, giuridiche e politico-culturali che dal presente lo estendono verso il passato e il futuro non meno che come relazione termo-dinamica con l’Altro e il “noi”.
Essa richiede, altresì, come prodotto simbolico-culturale e politico in progress, richiami e connessione al medium comunicativo (semiotico-linguistico) che n’alimenta e realizza l’espressione come lingua e modo d’essere insieme con l’immaginario collettivo che l’accompagna nel suo ininterrotto andare. Un immaginario che si può alimentare anche di sorgenti pescate nello spettacolo del mondo quanto nella sua contemplazione creativa e d’uso o nelle elaborazioni simboliche tra fondamento mitico e/o speculativo, sia nel vuoto di ogni appoggio logico o creduto o costruito. Man mano che l’esperienza e le associazioni hanno o non hanno dato vita ad un patrimonio d’idee, sogni, bisogni e valori, non di rado contraddittori, che sono diventati la ‘rappresentazione’ e il riconoscimento di una persona e di una comunità, il ‘modello’ unico di cui ognuno crede d’essere variabile dipendente, si è formato un circolo o una retta che ruota su se stessa. E i suoi punti, nella zona abitata da noi (figli e al tempo duplicatori più o meno critici di un particolare modo d’essere), hanno assunto il nome di soggetto, persona, famiglia, patria, religione, chiesa, partito, nazione, popolo, figli di Dio o dell’Impero o altra categoria di separazione. Nel nostro habitat culturale e civile, il significato, sebbene non scontato, è quello che tutti diamo per saputo e scontato. Non sono dati neanche i benefici del mercato nei periodi sconti.
Non diversamente funziona l’immaginale dell’universo fantasmatico-elettronico del tempo informatico e del linguaggio digitale dove ognuno crede di essere clone, immagine e somiglianza, di un codice binary-digit che riproduce artificialmente soggetti perfettamente coerenti, cose, azioni e mondi in conformità ad un modello formalizzato, univocamente decifrabile, e operazioni riproducibili a catena, non suscettibili di casualità, illusioni, percezioni o fantasie deliranti e figlie della follia o dell’ironia dei sogni. L’immaginario di questo ‘immaginale’, se così si può dire, seppure ci presenta una “tecnologia dell’anima” – come direbbe Miche Faucoult – esposta a pratiche di gioco discorsive e conflittuali, è solo il risultato di un procedere logico-matematico puramente virtuale e autoreferenziale che tutto e tutti vorrebbe trattare come variabile deduttiva di un unico e sempre identico modello: soggetto vs oggetto, anima vs corpo, spirito vs materia, bene vs male, amico vs nemico etc.
Ma se la formazione del sé individuale e storico è stata marcata da quest’orientamento, non sono mancati il contra-dire, le contraddizioni, le deviazioni personali e/o collettive che, segnati i comportamenti soggettivi e sociali d’ogni stanziamento umano, hanno accompagnato e articolato il cammino identitario modellizzante intorno all’uno, o alla dualità, o alla polarizzazione degli opposti, o alla sintesi ossimorica, o ai paradossi, alla molteplicità, alla gihad.
Così per tanto tempo il problema dell’identità, nel sapere e nelle pratiche delle nostre case e altrui, è stato legato soprattutto al vincolo metafisico dell’Essere come Uno, anziché al non essere dell’uno o molteplice; politicamente al clan, al suddito, al cittadino come soggetto di particolari diritti e doveri, anziché allo straniero; al sano anziché al folle nel pensiero medico; al familiare/domestico anziché all’unheimlich o strano nella vita e nell’esistenza (in senso lato) degli uomini concreti.
Ma non sono mancate pure le ricerche della logica metaforica o d’altro genere a parlarci del loro Self personale e storico. Gli emblemi o i nomi che contraddistinguevano una tribù da un’altra, un vessillo floreale per una casata, l’effigie di un’animale per un guerriero, l’Albatros (l’uomo o il poeta come esule), Alice (il soggetto che cerca la realtà dietro lo specchio), Narciso (il soggetto innamorato di se stesso, oggi nella versione elettronica dell’autoclonazione digitale e genetica), il nomade, lo straniero, l’ospite o altri emblemi; anche il cielo e la terra, trasformati dalla configurazione delle costellazioni e dagli impianti dei satelliti in orbita o dai templi e dai capolavori della tecnica e dell’arte, dalla vegetazione d’oltre Mediterraneo, arabo-asiatica o latino-americana, dall’architettura et alia; i territori con i loro colori e odori o le coste variegate e le correnti marine con le loro storie e i loro affluenti hanno “tagliato”, tutti, l’anima degli uomini.
La terra siciliana, per esempio e particolare, non può essere scissa dall’identità personale e storica del soggetto geografico-storico ibrido che qui ha preso dimora, e che n’è anche abitato, come in un testo di forze alleate, miscele fluidodinamiche più che plurali, moltitudinarie. Qui, infatti, gli incroci e gli ibridi sono stati più generosi che altrove. E a questo nuovo “animale”, non meno significativo di quello di leone dato ad Achille o di Pegaso al cavallo alato, si potrebbe, perché no, dare nome ornitorinco per la sua identità plurima di soggetto configurata come una complessità mista d’uccello, pesce, mammifero e altri elementi di auto-etero-poiesi contestuale; un incrocio che esclude la circolarità dell’eterno ritorno dell’eguale e rimette in circolo il ‘tempo’ e la ‘relazione’ che neanche il vecchio Aristotile aveva espulso dai tre principi della sua logica “fondamentale”.
Il Soggetto, così, nella sua duplice accezione d’individualità attiva e/o passiva, autonoma e dipendente, è anche parola e azione che tocca la libertà, la necessità, il contesto e la soggettività/relatività stessa del contesto relazionale di unità molteplice; è anche altro nome insieme con il suo concetto e la soggettività delle circostanze che ci parla del sé e della sua configurazione identitaria instabile.
E certo è anche che il concetto di libertà, come quello d’identità del sé, non ha meno storia e polisemia da raccontarci, anche se il soggetto del post-moderno – il soggetto senza soggetto che sembra aver relegato la sua libertà solo nella scelta dello scegliere solo la scelta, anziché legarla all’azione progettuale alcunché – vorrebbe essere quello della “morte dell’uomo” o dell’ “autore senza opera” individuato da Michel Foucault. La fine della storia, di cui tanto si parla, non è un progetto. Del pro-getto gli manca l’imprevedibilità essenziale, come diceva il poeta Paul Valery allorquando parlava dell’uomo e della realtà; e Bertolt Brecht diceva che la realtà ha più forme di quanto ne possano escogitare i modelli.
Così un progetto, diverso da quello di un mondo dove tutto, si vuol fare credere, si equivale perché tutto è “opinione” (e tra le opinioni non c’è, si sa, specie se scambiate sul libero mercato della vendita comunicativa, un’opinione che sia più importante di un’altra, e con diritto ad orientare diversamente) è ancora possibile, se i nuovi soggetti emergenti faran leva su un io/noi, “Self storico”, dall’identità plurale, decentrata e contestualizzata, anziché su quella, presunta, monolitica, accentrata e interiore che esclude il diverso, perché dissimile, e il contesto relazionale e temporale. Forse un “immaginario simbolico” che, itinerante, si muove attraverso i luoghi e la sua storia, è il passo e il gesto giusto piuttosto che un’ipotesi in cerca di confutazione logico-analitica e riduzionista.
Il tutto della “fine della storia”, giocato nella cornice della relatività banalizzata, spogliata della serietà metodologica e scientifica che il sapere storico gli ha riconosciuto, senza determinazione d’impegni e valori alternativi che tempo, inter-relazioni suggeriscono, nel tempo della rete, in progress verso implicanze politiche evolutive di democrazia non rappresentativa e allargata, e libertà creativa socializzata, non regge se non per chi già dispone delle chiavi della polis e delle sue metamorfosi e vuole conservarle come proprietà privata.
La rete. Altra metafora. Ieri, nella società dell’industria pesante e dell’Ottocento positivista e deterministico, vigevano la metafora della macchina e dell’orologio, il meccanicismo e la meccanica delle parti dell’ingranaggio analitico coerente. La rete invece, come nell’universo quantistico, suggerisce l’esistenza di buchi e vuoti, di caos e d’ordine emergente, di variegato e arabesco, metafore e isotopie, fluidità fluttuanti e fluoe, legate come al mondo della navigazione poetica complessa, nodi e analogie provenienti dal tessuto della ragnatela, o (effetti)“farfalla” e “tunnel” o altro “bestiario” fantasioso che ci dice, conoscitivamente, del mondo “nascosto” della fisica e della cosmologia, ma anche di una ricerca sull’identità del Self storico
Nell’identità del Self storico, quasi intemporalità archetipica, c’è anche una storia teorica legata alla configurazione dello specifico del suo idem in rapporto all’alterità; identità come unità dell’Io rispetto ad un modello d’identità fisso che misura il differenziarsi delle identità particolari proprie o altrui o rispetto ad un crocevia di convergenza e fuga in cui il cammino dell’identità si fa e si disfa continuamente, rimescolando le componenti in gioco come il volto di un paesaggio che cambia internamente ed esternamente, e conserva, senza ipostatizzazioni, i caratteri riconoscibili di un’ identità singolare plurale, o unica insieme con le altre unicità.
E ciò non è peculiarità solo della cultura occidentale che gioca con la dimensione ambivalente, ambigua e polisemica dell’interno e dell’esterno – una forza interna che si esteriorizza o esterna che s’interiorizza – in contatto e conflitto mobile ma non riduzionistico, a meno che non intervengano occorrenti manipolazioni ideologiche e d’occasione. Così è invece, per esempio, oggi, a proposito della gihad islamica.
Derivante “dalla radice j-h-d, gihad significa usare tutta la forza di una persona nel modo giusto per avanzare verso un obiettivo con tutta la potenza e la forza di quello a resistere ad ogni difficoltà”, lì dove l’ideologia della sicurezza del nostro tempo global-liberista la vuole un movimento di terroristi e nemici della civiltà occidentale e americana. “ Gihad è un equilibrio di conquista interiore ed esteriore. Il gihad considera la ricerca della perfezione spirituale e l’aiuto agli altri di fare questo. Ottenere la perfezione interna è il gran gihad, aiutare gli altri è il piccolo gihad. Quando dividete uno dal altro gihad non è più gihad. Dalla mancanza del piccolo gihad nasce l’indifferenza e dalla mancanza del gran gihad nasce l’anarchia”.
Se c’è dunque una storicità vitale e politico-culturale, il modello teorico del nucleo stabile, che costituiva l’anima del soggetto come immutabile e permanente, la sua essenza eterna, l’idem del suo ubi consistam rispetto all’alter che veniva misurato, è alquanto dogmatico sostenerne ancora valore di funzionalità. Funzionale a chi e a che cosa? Oggi, ma forse è stato sempre così, ci si trova in un nexus di relazioni e di differenziazioni continue, a ritmo vertiginoso, e con una consapevolezza maggiore e più matura di diversi fra i molti e diversi; una molteplicità topologica delle identità di ciascuno e dell’Altro che non conosce sbarramenti, chiusure e isolamenti (nella “purezza”) rispetto alla contaminazione e-migrante e concreta che il villaggio globale, tutto sommato, ci sbatte sotto il naso. Un processo spazio-temporale, geografico-culturale, in cui l’unità d’origine si decompone in elementi singolari universali, che si aggregano in rete, discreta e bucata, vuoto emergente continuamente mutante come in un ambiente nel quale ogni identità stabile si dissolve per aggregarsi attorno ad un’alleanza/e di identità plurale/i, molteplice/i. E se c’è un concetto, e una configurazione con gli annessi processi di percezione e d’astrazione di sé del self storico, non può mancare, quindi, neanche un riferimento alla sua temporalità e alla sua storicità topo-logica, il “taglio” che ne fa anche un crocevia di pre-culturale e culturale o un testo di relazioni e processi tale che la metafora dell’ibrido sarebbe la scelta migliore per definirne l’unità complessa e termodinamica del Self storico personale e collettivo.
Unità semplice-molteplice, dunque, o unità plurale, in-dividuo puro o singolarità sociale, identità dell’esclusione o dell’inclusione, logica e politica dell’identificazione in un “è” uno, seppure etnocentrico, o della costruzione delle relazioni dell’uno-di-molti, pluralità d’identità singolari, che si disfa e rifà continuamente, quasi il paesaggio mediterraneo descritto da F. Braudel. Un paesaggio come ornitorinco, un virus della mutazione emergente. Una mutazione, contestualmente organica, come un testo poetico multipiani, contro cui le “radici” cristiane o meno di un’Europa della cultura dei petrodollari o della ricerca neuronica=dna-informatico poco hanno a che innalzare scudi stellari e altre guerre asimmetriche.
Non ci manca, per sintesi, nessun termine, determinato o identerminato, con-scio o in-conscio della questione: dalla dinamica dell’individuazione, alla possibile definizione o nominazione dell’essere-io come identità personale e sociale (gruppo sociale: famiglia, associazioni, nazione, ecc.) che ha co-scienza solo in rapporto di opposizione all’altro, alter ego o assoluto eteros che sia, all’identità e al sé come relazione del divenire-identità in condizioni d’equilibrio instabile e geografico-storico oscillante, topologico piuttosto che globale.
Non manca certamente neanche il gioco delle polarizazioni e delle altre maschere antropologico-culturale-politiche segnate dall’insieme delle norme di condotta, dei valori, degli usi e del linguaggio che uniscono o diversificano i gruppi umani in base ai tempi. Così, oggi, epoca elettronica, le maschere sono gli account, le password, gli avatar e i nickname con cui moltiplichiamo l’identità del nostro Io e del suo sé più prismatico e sfaccettato che mai.
Il richiamo all’identità culturale di una perso­na è così il suo ventaglio, cioè una costellazione di svariate identificazioni particolari riferite ad altrettante apparte­nenze culturali e storico-antropologiche distinte e un processo dina­mico costante che implica la libertà della persona, la sua diversità culturale, la memoria e il progetto quanto il particolare e l’universale concreto (J. P. Sartre ricordava che non esiste l’uomo universale, ma gli uomini; Hannah Arendt amava gli amici, non l’amicizia). Il metro della somiglianza, basato sul principio di somiglianza e analogia, che parla della differenza rispetto all’identità da cui allontana come dal suo modello, non è più criterio sufficiente per le identità frammentate e della mescolanza del “moderno” articolato, dialettico.
L’identità culturale-politica non è un dato fossiliz­zato. La sua è una rappresentazione relativa e in continuo cambiamento, perché si fonda sulla libertà dell’uomo e sulle sue scelte sia nei confronti del gruppo o dei gruppi cui appartiene sia in rapporto al passato e alla tradizione quanto a un futuro possibile, “ a venire”, non assolutizzato come ripetizione del presente.
Una sua ipostatizzazione, oggi, per esempio, presso i Balcani (ex Jugoslavia) o i fondamentalismi totalizzanti, che accomunano sia l’Occidente sia l’Oriente, o ieri presso i totalitarismi novecenteschi – apre alle politiche reazionarie. E i tentativi di affermare un’identificazione assoluta tra identità e territorio trasformerebbero l’etnocentrico in razzismo e guerre di in-civiltà o viltà. Sarebbe una un mondo d’identità chiuse in se stesse, assolute e incomunicanti tra loro; e la cosa non potrebbe che portare ancora ai campi di concentramento, alla pulizia etnica o alle guerre sante, giuste, umanitarie e infinite, già in corso d’opera. E il mondo senza frontiere non ha bisogno di simili identità.
Il “secolo breve”, il Novecento, il secolo delle due guerre mondiali, dei totalitarismi, dei la­ger, dei gulag, dei terrorismi diffusi, delle violenze legaliz­zate del ricco sul povero, del resto ha già segnato la crisi del Soggetto assoluto, e dal canto suo le scienze umane, dall’antropologia, alla sociologia, alla filosofia, alla psicoanalisi, alla fenomenologia, all’esistenzialismo, alla linguistica e logica, alla letteratura, arte e poesia hanno decretato i limiti di un’identità forte basata sul “cogito” cartesiano. Hanno dimostrato e mostrato che l’“io non è padrone a casa propria” (Freud), che è la società a formare la coscienza e non viceversa (Marx), che c’è un “ça parle” o un “sono” dove “non penso” (Lacan) o che il linguaggio è “la casa dell’essere”. Il narcisismo dell’io occidentale compatto, greco-latino-cristiano o moderno il modello, ormai è nel lutto della perdita. La stessa fisica, in fondo, c’è lo dà come fascio cangiante di neuroni e risonanze non riducibili ad unità semplice e acontestuale. Lo sviluppo ultimo del XX secolo, volontà guidata dalla politica e dalle industrie dello svago, l’ha ridotto ad individuo-massa (spettatore distratto e passivo) sdoppiandolo tra veglia e sogno, responsabilità e noia, oblio e memoria elettronica di un simulacro virtuale e gioco digitale, crisi e alienazione.
Ma c’è anche una metamorfosi cucinata nel brodo creolo e senza barriere della/e lingua/e dei corpi che si muove e se-duce con le migrazioni che l’era dell’indifferenziato globale del capitalismo mercificante ha incrementato e portato alla ribalta con la resistenza culturale-politica delle singolarità, individualità personali o di gruppo, che non vi si riconoscono. Non tutto, infatti, è diventato merce comunitaria astratta, misurabile, e universale, secondo il canone del metro quantitativo del Pil, delle borse finanziarie e delle percentuali di profitti e perdite. Se ogni spazio è diventato anche paesaggio e ambiente che interagisce e crea mutazioni imprevedibili (ma da affrontare), come nel Mediterraneo di F. Braudel, e che perciò ci mette di nuovo di fronte all’Altro come ad una riconfigurazione termodinamica ( “del non equilibrio”) del rapporto dell’Io/Self storico, alterità irriducibile all’idem, allora non ci sono suoni di piffero omologanti e riduzionistici che contano. L. Wittgen­stein ha messo in crisi la caratterizzazione della nozione d’identità definita nei termini dell’ontologia dell’Uno e, come aveva visto Aristotele, fuori relazione e tempo dati: “dire di due cose che sono identiche è un non-senso, dire di una che è iden­tica a se stessa, non dice nulla”. E questa crisi non tocca solo la logica ma l’intero universo semantico che su quella base l’Occidente si era costruito. L’analogia che sfrutta il principio di somiglianza come variazione dell’uno e dell’essere, sempre identico a se stesso, cede il passo dunque alla differenza che ripete se stessa sempre come differenza o singolarità uni-voca di molte voci.
L’altro come “singolarità universale” ontologica (sono come tutti, non somiglio a nessuno – avrebbe detto Rousseau) è anche un alter polisemico che sempre più spesso si ritrova insieme con il “noi” – un “noi” la cui identità è la sua differenza uni-voca non riducibile all’identità dell’Uno e dei suoi concetti assoluti e assiomatici – della molteplicità semiotica e della rappresentazione metaforica capace di darci un altro linguaggio e un altro mondo. Quasi il linguaggio di un testo poetico il cui rapporto si definisce attraverso la parola e la coscienza delle cose nella forma dell’esercizio linguistico e topologico testuale che ne organizza gli elementi e l’insieme in maniera tale da non dimenticare che c’è una materia viva e una storia concreta con cui fare i conti.
Dopo la rivoluzione borghese e Nietzsche, il cui pensiero aforistico e aperto (tra liberazione dell’uomo e suo annichilimento) ha posto il reale nel segno del dinamismo e della desostanzializzazione, i con­cetti assoluti e definitivi decadono per sempre. Muoiono Dio e l’Io, e il verbo essere non può più venire pronunciato per definire un’essenza stabile o imporre identità irreali quanto ideologiche; l’identità acquista l’orientamento di una dimensione plurale come un incrocio di livelli di senso e linguaggi tipici del discorso poetico che con il politico (in senso lato e proprio) ha interazione.
Non è un caso, infatti, che è la poesia, sebbene sembra rinchiudersi in una sorta di purezza soggettiva e relegata ai margini, continui ad opporsi sia al dominio dell’uomo sull’uomo, alle identità forti e pietrificate, come al “dominio della merce sull’uomo”. La sua identità, infatti, come quella umana, è plurale e dinamica; è più propriamente della termodinamica del non-equilibrio, dei flussi e delle differenze. Il linguaggio della poesia, diceva Julia Kristeva è una follia collettiva o socializzata, la cancellazione del soggetto per farsi testo trans-letterario e mediazione comunicativa trasgressiva tra lirica, “chora” semiotica, psiche e società.
Non c’è essere così che non passi attraverso il simbolico e l’immaginario (l’immaginale odierno, generato dall’elettronica del digitale e virtuale, non sfugge, sebbene senza spessore memoriale) e la sua relazione con l’eteros, l’altro del conflitto vs l’identità del medesimo. C’è invece un articolabile tra polarizzazione e ibridazione che deve pagare un prezzo politico rischioso, e spesso penalizzante. Adorno diceva che dell’ibrido hanno paura solo i regimi fascisti e totalitari.
Ma la deriva dell’identità sostanziale e raziocinante del soggetto non ha aspettato la frammentazione del moderno o la psicoanalisi, che ne ha recuperato anche la soggettività, se il pathos ha fatto irruzione già fin dagli albori della cultura greca e/o ha alimentato il dire poetico coniugando, paradossalmente e/o metaforicamente, la lotta degli opposti in un duello di polarizzazione, a volte riduzionistica, a volte d’instabile equilibrio, o fra istanze e motivi in “divenire/i” multidimensionali.

Così Baudelaire:

Tu vieni dal profondo cielo o sorgi
Dall’abisso, o Beltà? Versa il tuo sguardo
infernale e divino, mescolati,
il beneficio e il crimine, e per questo
al vino ti potrei rassomigliare.
Hai nell’occhio l’aurora ed il tramonto;
come una sera tempestosa spandi
profumi; ed i tuoi baci sono un filtro,
e la tua bocca un’anfora, che fanno
coraggioso il fanciullo, l’eroe vile.
[…]
Sopra i morti, o Beltà, di cui ti ridi,
cammini. Non è il meno affascinante,
l’Orrore, tra le tue gioie; amoroso
sopra il tuo ventre orgoglioso danza
l’Omicidio, fra i ciondoli il piú caro.
Vola abbagliato verso te l’effimera,
fiammeggia stride e dice:
“Benediciamo questa torcia!” Anela
l’innamorato chino sulla bella,
é ha l'aria d’un morente che accarezza
la sua tomba. O Beltà, che cosa importa,
o mostro spaventoso enorme ingenuo,
[…]

Foscolo, Pessoa o altri firmava/no spesso i propri scritti con pseudonimi che, portatori d’altre identità nascondevano e rivelavano il proprio sé riluttante a qualsiasi trasparenza luminosa e includente la “notte” e l’indicibile differenza. Oggi il rituale si ripete con il ritmo velocissimo della comunicazione elettronica in modalità nickname, l’identità plurimo-ibrida con cui un soggetto si nasconde e si rivela nella chiacchiera della chat o negli account della corrispondenza e-mail. L’identità, o fascio d’identità multiple che discutono all’interno e all’esterno dell’io e del suo self storico, è così il topologico, locale, miscelato e concreto più che il globale astratto e informatizzato.
Braudel nel suo indimenticabile viaggio attraverso l’identità del Mediterraneo ne ha descritto come di un paesaggio e un ambiente geografico-storico di permanente mutazione e scambio tra indigeno, esotico e ricreante identità nuova/e. E ciò a dispetto degli uomini che, rinchiusi nello specifico di un’identità ideologica chiusa, creano barriere d’esclusione e di eliminazione del diverso anziché praticare il dialogo tra le culture e una possibile trans-rielaborazione del concetto di identità. E qui ancora un confronto con la prassi del fare poesia
Il poeta arabo siriano Adonis – poeta di un mondo, quello mussulmano, che oggi, erodendo ad hoc la ricchezza semantica del termine con un’attribuzione impropria, è stigmatizzato come quello della Gihad islamico-terroristica – suggerisce un dialogo vero tra culture attraverso; un dialogo che, costituendo una vera e propria epistemologia “mimetica” dell’identità della poesia, la “transcreazione”[1] si può progettare insieme prendendo in prestito l’azione dal fare della poesia. Nel mondo contemporaneo, dove si avvertono programmaticamente contrapposte le identità fino a riproporre le chiusure e le opposizioni contrapposte nel demente conflitto di civiltà, la transcreazione poetica offre invece il proprio modello di com-posizione plurale rispetto al pensiero unico, quello polarizzante sul Self storico occidentale, e omologante su uno dei due corni della presunta opposizione di civiltà, che la globalizzazione neo-capitalistica del XXI secolo porta avanti a suon di bombe convenzionali e non convenzionali.
Adonis, pseudonimo di Alì Ahmad Sa īd Isbir, per neutralizzare polarità quali quelle che oppongono cultura umanistica e cultura scientifica, “divino” e “terreno”, spirito e corpo o interno ed esterno, amico e nemico, assume a modello l’attività epistemologica propria della poesia perché la sua potenza metaforica è rappresentazione “sinestesica” e figurale che, ubbidendo ad una logica diversa da quella del terzo escluso, esclude le separazioni nette delle componenti nell’organizzazione testuale, e orienta l’azione conformemente al nuovo modo di vedere, ascoltare e sentire l’Altro e il suo linguaggio, dove ritmo e metro hanno una commensurabilità né di conservazione né di mercato quantitativo.
Secondo Alì Ahmad Sa īd Isbir, noto con il nickname Adonis, proprio nel secolo della globaliz­zazione che produce e misura standardizzando, suggerisce l’agire della scrittura poetica proprio perché praticata significante e comunicante trasgressiva; perché capace di essere un “modello” e orizzonte per un essere umano capace di trasformarsi “da semplice creatura che vive nel mondo in un essere che crea perpetuamente il mondo stesso”. La pratica della poesia, che si pone come un superamento continuo nel testo poetico stesso della datità delle parole, ossia dei suoi limiti convenzionali, fino a coincidere addi­rittura con “la riedificazione del mondo” è punto di osservazione privilegiato perché rinnova le pa­role e le inserisce in una dimensione inedita, perché inedito è il mondo che progetta.
Occorre leggere bene e poi, se si possiede il talento ne­cessario (come in ogni lavoro davvero artigianale), scrivere bene. Solo così 1'”io”, il “tu”, il “lui/lei” potranno davvero interagire entro i livelli plurimi del Senso poetico, “che rappresentano la stratificazione d’illuminazioni creative in diversi campi”. Ciò equivale ad attivare un meccanismo di ridefinizione costante delle coscienze individuali, del linguaggio e del mondo. La poesia non fossilizza, ma trasforma e “ogni opera esprime la presenza dell’altro unita all’io”, al punto che – conclude Adonis – anche “la que­stione dell’Essere è essenzialmente un problema di trans­creazione, di trans-cultura, di trascendenza”.

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